Brevi appunti di botanica popolare
Fino dai tempi più antichi, quando l’uomo – o forse sarebbe meglio dire la donna – passò gradatamente dall’esclusiva attività di cacciatore a quella di raccoglitore e poi di agricoltore, la conoscenza del mondo vegetale assunse un’importanza via via maggiore, legata alla consapevolezza di quanto le piante potessero tornare utili dal punto di vista alimentare, tecnologico e medico. Si imparò progressivamente a distinguere tra di loro i diversi tipi di alberi, arbusti e piante erbacee e ci si rese ben presto conto del loro immenso numero e di come fosse necessario classificarle, dare loro nomi condivisi dalla comunità di cui si faceva parte, in modo da potersi scambiare le relative informazioni sull’utilizzo e far crescere il patrimonio culturale del gruppo.
Nomi, quindi. Linguaggio. Ogni comunità il suo; e tutto funzionò sinché non iniziarono gli scambi, in aree geografiche sempre più ampie. Ma ognuno continuò a chiamare le piante a proprio modo, sinché non intervennero le superiori esigenze di una scienza moderna che, a partire dall’età dei lumi – diciottesimo secolo, quindi – prese a scambiare informazioni a livello continentale. E fu così che, nel 1758 lo svedese Carl von Linné, Linneo per i posteri, dall’università di Uppsala pubblicò il trattato Systema naturae, base della moderna sistematica nelle scienze naturali, non solo botaniche.
Oggi, quindi, abbiamo per i vegetali denominazioni popolari, nei diversi dialetti e denominazioni correnti, nelle lingue nazionali, ma solo la classificazione scientifica secondo Linneo – basata sulla coppia Genere / specie - garantisce il riferimento sicuro di ogni essenza.
Nel campo della cultura tradizionale possiamo parlare di piante per uso alimentare, a cominciare da quello che, per le nostre zone di montagna fu il vero e proprio albero del pane: il castagno, Castanea sativa secondo Linneo, nel nostro dialetto sëlvagh, se cresciuto spontaneamente da seme, o àrbol se innestato (insidì) e coltivato sui confini tra le proprietà, cimato (zoncà) in modo da formare un vaso di germogli (but) rinnovati periodicamente per mantenere elevata la quantità di frutti prodotti annualmente. Albero originario delle zone mediterranee, portato nelle Alpi dai colonizzatori romani, fu sempre particolarmente apprezzato anche per il legname da opera, particolarmente resistente a parassiti e agenti atmosferici grazie all’elevata quantità di tannino.
Non dimentichiamo poi l’importanza del noce (nos, Junglans regia), la ghianda degli dei – così suona la traduzione del suo nome scientifico – fornitrice di olio per uso alimentare, lampante e medicale, ma anche albero maledetto, sotto le cui fronde si riunivano le streghe (ij strìi) e alla cui ombra badavano bene di non soffermarsi i viandanti per non incorrere in ataviche maledizioni. E ancora il gelso bianco (morón, Morus alba) le cui foglie costituivano il cibo per ij bigàt, i bachi da seta, il cui allevamento costituì per secoli un’importante integrazione al magro reddito delle famiglie nei nostri paesi; tanto importanti che le loro uova, prima di essere ‘impiantate’ venivano portate in solenne processione il 25 di aprile, festa di san Marco evangelista, patrono dei setaioli.
Tra le erbe spontanee sono molte quelle che ancora oggi vengono raccolte per farne insalate, zuppe rustiche o delicati manicaretti di stagione. Tarassaco (zicorión, Taraxacus officinalis), lavartiz (luppolo, Humulus lupulus), spärzit (asparago selvatico, Asparagus acutifolius), värzòl (erba del cucco, Silene vulgaris), päncaud (erba benedetta, Geum caryophyllata), spatascieui, (piattello, Hipocaeris radicata), tanto per citare le più conosciute, sono i frutti di quell’orto del Signore dal quale hanno raccolto e si sono nutrite generazioni di montanari.
E poi citiamo la segale (biavä, Secale cereale) cereale da farina per antonomasia, ma anche fornitore della paglia che serviva a coprire i tetti di case e stalle, almeno sin che il miglioramento della tecnica di carpenteria non permise l’uso delle più sicure e durature piòde.
Infine, tra gli arbusti, va ricordato il ginepro (brìsciol, Juniperus communis) con le sue bacche scure, ottime come aromatizzante negli arrosti e per la produzione di liquori profumati, ma anche talismano supremo contro le arti malefiche di streghe e demoni: basta lanciargliene addosso una manciata per vederli fuggire a gambe levate. Pianta benedetta, il ginepro, da quando la Vergine Maria ne utilizzò alcuni rami per scaldare l’acqua con cui per la prima volta lavò il Divino Neonato. Da allora le madri ripetono il rito nelle mattine di Natale, bagnando in modo augurale i loro piccoli nell’acqua scaldata sul fuoco di ginepro.
Per concludere val la pena di ricordare come i nostri progenitori celti avessero un concetto sacrale del mondo vegetale, tanto da associare le varie piante agli dei del loro panteon e da impostare su di esse il loro alfabeto (ogham) e il loro calendario, basato su un ciclo lunare di tredici mesi. Ecco quindi il mese della betulla, del frassino, dell’ontano, e alcuni giorni particolari, coincidenti con i solstizi – con tasso ed erica per inverno ed estate – e gli equinozi, con la ginestra in primavera e il pioppo in autunno. E l’abete rosso, la pësciä dei nostri boschi, a contrassegnare quello che per noi è il 24 dicembre, giorno del sole invitto che rinasce dalle tenebre a segnare l’inizio di un nuovo periodo di vita e di fecondità. E’ un caso se oggi festeggiamo la nascita del Cristo, luce del mondo, proprio in quel momento dell’anno? E se come simbolo di questo Natale utilizziamo un abete adorno di luci colorate?
Nomi, quindi. Linguaggio. Ogni comunità il suo; e tutto funzionò sinché non iniziarono gli scambi, in aree geografiche sempre più ampie. Ma ognuno continuò a chiamare le piante a proprio modo, sinché non intervennero le superiori esigenze di una scienza moderna che, a partire dall’età dei lumi – diciottesimo secolo, quindi – prese a scambiare informazioni a livello continentale. E fu così che, nel 1758 lo svedese Carl von Linné, Linneo per i posteri, dall’università di Uppsala pubblicò il trattato Systema naturae, base della moderna sistematica nelle scienze naturali, non solo botaniche.
Oggi, quindi, abbiamo per i vegetali denominazioni popolari, nei diversi dialetti e denominazioni correnti, nelle lingue nazionali, ma solo la classificazione scientifica secondo Linneo – basata sulla coppia Genere / specie - garantisce il riferimento sicuro di ogni essenza.
Nel campo della cultura tradizionale possiamo parlare di piante per uso alimentare, a cominciare da quello che, per le nostre zone di montagna fu il vero e proprio albero del pane: il castagno, Castanea sativa secondo Linneo, nel nostro dialetto sëlvagh, se cresciuto spontaneamente da seme, o àrbol se innestato (insidì) e coltivato sui confini tra le proprietà, cimato (zoncà) in modo da formare un vaso di germogli (but) rinnovati periodicamente per mantenere elevata la quantità di frutti prodotti annualmente. Albero originario delle zone mediterranee, portato nelle Alpi dai colonizzatori romani, fu sempre particolarmente apprezzato anche per il legname da opera, particolarmente resistente a parassiti e agenti atmosferici grazie all’elevata quantità di tannino.
Non dimentichiamo poi l’importanza del noce (nos, Junglans regia), la ghianda degli dei – così suona la traduzione del suo nome scientifico – fornitrice di olio per uso alimentare, lampante e medicale, ma anche albero maledetto, sotto le cui fronde si riunivano le streghe (ij strìi) e alla cui ombra badavano bene di non soffermarsi i viandanti per non incorrere in ataviche maledizioni. E ancora il gelso bianco (morón, Morus alba) le cui foglie costituivano il cibo per ij bigàt, i bachi da seta, il cui allevamento costituì per secoli un’importante integrazione al magro reddito delle famiglie nei nostri paesi; tanto importanti che le loro uova, prima di essere ‘impiantate’ venivano portate in solenne processione il 25 di aprile, festa di san Marco evangelista, patrono dei setaioli.
Tra le erbe spontanee sono molte quelle che ancora oggi vengono raccolte per farne insalate, zuppe rustiche o delicati manicaretti di stagione. Tarassaco (zicorión, Taraxacus officinalis), lavartiz (luppolo, Humulus lupulus), spärzit (asparago selvatico, Asparagus acutifolius), värzòl (erba del cucco, Silene vulgaris), päncaud (erba benedetta, Geum caryophyllata), spatascieui, (piattello, Hipocaeris radicata), tanto per citare le più conosciute, sono i frutti di quell’orto del Signore dal quale hanno raccolto e si sono nutrite generazioni di montanari.
E poi citiamo la segale (biavä, Secale cereale) cereale da farina per antonomasia, ma anche fornitore della paglia che serviva a coprire i tetti di case e stalle, almeno sin che il miglioramento della tecnica di carpenteria non permise l’uso delle più sicure e durature piòde.
Infine, tra gli arbusti, va ricordato il ginepro (brìsciol, Juniperus communis) con le sue bacche scure, ottime come aromatizzante negli arrosti e per la produzione di liquori profumati, ma anche talismano supremo contro le arti malefiche di streghe e demoni: basta lanciargliene addosso una manciata per vederli fuggire a gambe levate. Pianta benedetta, il ginepro, da quando la Vergine Maria ne utilizzò alcuni rami per scaldare l’acqua con cui per la prima volta lavò il Divino Neonato. Da allora le madri ripetono il rito nelle mattine di Natale, bagnando in modo augurale i loro piccoli nell’acqua scaldata sul fuoco di ginepro.
Per concludere val la pena di ricordare come i nostri progenitori celti avessero un concetto sacrale del mondo vegetale, tanto da associare le varie piante agli dei del loro panteon e da impostare su di esse il loro alfabeto (ogham) e il loro calendario, basato su un ciclo lunare di tredici mesi. Ecco quindi il mese della betulla, del frassino, dell’ontano, e alcuni giorni particolari, coincidenti con i solstizi – con tasso ed erica per inverno ed estate – e gli equinozi, con la ginestra in primavera e il pioppo in autunno. E l’abete rosso, la pësciä dei nostri boschi, a contrassegnare quello che per noi è il 24 dicembre, giorno del sole invitto che rinasce dalle tenebre a segnare l’inizio di un nuovo periodo di vita e di fecondità. E’ un caso se oggi festeggiamo la nascita del Cristo, luce del mondo, proprio in quel momento dell’anno? E se come simbolo di questo Natale utilizziamo un abete adorno di luci colorate?
Massimo M. Bonini – barbä Bonìn
Nessun commento:
Posta un commento