Vi propongo un viaggio. Un viaggio non particolarmente lungo, dal punto di vista geografico – ci muoveremo tutt’attorno al lago d’Orta e nei suoi immediati dintorni – ma soprattutto un viaggio nel tempo, fino alla preistoria e ritorno, seguendo il cerchio dell’anno, lasciandoci condurre… dal calendario.
Con un’avvertenza. Per il nostro viaggio avremo bisogno di uno strumento importante: la lingua. La lingua parlata dalla gente, quella con cui nei secoli – anzi, nei millenni – è stata codificata e trasmessa la cultura della gente, lingua che non corrisponde mai a un canone letterario, ma piuttosto alle esigenze pratiche quotidiane, lingua diversa da zona a zona e pure con carattere di forte unitarietà, lingua regionale… dialetto. Io parlo quello del mio paese, Casale Corte Cerro e lo scrivo utilizzando le regole fonetiche e grammaticali fissate dalla Consulta regionale per la Lingua Piemontese, adattate alle nostre parlate, che dal piemontese vanno virando nel lombardo occidentale man mano che ci si sposta da ovest a est, dalla Compagnia dij Pastor di Omegna.
Il calendario, dunque. Quel blocchetto di fogli che tutti teniamo appeso alla parete di casa, che consultiamo per conoscere i giorni di festa e di lavoro, il trascorrere delle stagioni, la scadenza degli onomastici. Il calendario, appunto, ma sarebbe meglio dire ‘I’ calendari, perché di tali strumenti se ne possono citare parecchi. Innanzitutto il calendario solare, di tipica cultura maschile, quello formato da dodici mesi; e dodici, si badi bene, è un potente numero magico, così come il tre e il sette. Dodici sono gli apostoli di Cristo, dodici le tribù d’Israele, dodici i principali pianeti e le ‘case’ dello zodiaco. Ma esiste anche un calendario lunare, legato alla cultura femminile e basato sulle fasi, o quarti, del satellite terrestre con un ciclo di ventotto giorni e scadenze precise, tanto che Lä lunä, se ‘s fa inprumä dël sés, n’è mi colä dël mès . E’ nota l’influenza delle fasi lunari sui cicli biologici e naturali e quindi sui lavori agricoli.
Poi esiste un calendario dei santi le cui ricorrenze ricordano il martirologio – la seconda nascita – dei grandi personaggi della chiesa cristiana. Per i nostri vecchi era questo il principale riferimento, tanto che per loro avevano scarso significato date come il 15 gennaio o il 30 novembre, ma sapevano ben collocare le ricorrenze di san Mauro e di sant’Andrea. E val la pena di ricordare che il calendario antico differisce da quello moderno, dopo le riforme apportate alcuni decenni or sono.
E ancora, di somma importanza per la nostra preistoria, il calendario celtico, incentrato sulle grandi festività di quelle antiche popolazioni. Sahmain, tra autunno e inverno, Imbolc tra inverno e primavera, Beltaine a mezz’estate e Lughnasad al centro dell’estate, senza contare le numerose divinità minori.
Da qui allora, in omaggio agli antenati preistorici, iniziamo il nostro viaggio. Da quel Sahmain nel cui giorno, o meglio, nella cui notte – che per gli antichi il nuovo giorno iniziava al crepuscolo – i defunti tornavano sulla terra a visitare i propri discendenti. Morti benigni, tornanti a portare consolazione e consiglio. Morti da attendere con trepidazione e accogliere degnamente, preparando loro un banchetto di benvenuto. Ancora ai tempi della mia infanzia gli anziani andavano a letto, la sera del 31 ottobre, dopo aver recitato il rosario, lasciando sulla tavola castagne, latte e vino: la cena dei morti. Riti precristiani che la Chiesa non è mai riuscita ad estirpare, riti che ha cercato di sostituire sovrapponendo a quel momento una delle sue feste più importanti: Ognissanti, all Hallow even - la sera di tutti i Santi - in inglese. Quando le carestie dell‘800 costrinsero milioni di irlandesi a rifugiarsi in nord America, costoro si portarono dietro le tradizioni degli antenati, tradizioni che nel giro di pochi decenni si sono trasformate e ci sono ritornate sotto la forma di quel patetico carnevale a base di streghe e fantasmi che tutti conosciamo con il nome di Halloween.
Abbiamo citato le castagne, il pane dei poveri. Era tradizione che nel pomeriggio del primo novembre nelle osterie si preparassero ij bärgol, le castagne bollite da servire a chi tornava dalle cerimonie nei cimiteri insieme al primo assaggio del vino novello.
L’11 novembre si ricorda san Martino, il cavaliere romano che, secondo la leggenda, divise il proprio mantello a colpi di spada per donarne un metà ad un infreddolito mendicante.
A san Martino, tradizionalmente, terminava l’annata agraria e si rinnovavano i contratti di mezzadria e di affittanza. E le famiglie contadine che non ottenevano il rinnovo dovevano traslocare altrove le proprie povere cose, da cui l’espressione fàa sän Märtin. E ancora, il giorno di san Martino segnava l’inizio del periodo di libero transito tra i campi e i prati, periodo che durava sino a san Giuseppe, il 19 di marzo.
Per gli antichi Martinmas, il giorno di Martino, segnava l’inizio dell’inverno, quando il santo cavalca al crepuscolo e porta la prima neve.
Infine questo è di ‘d marcä, giorno segna tempo. Se al tramonto il cielo sarà sereno ci potremo aspettare un inverno breve e clemente, ma se il sole tramonterà tra le nubi neve e freddo intenso non mancheranno. Ma comunque è bene ricordare che, nonostante l’estate di san Martino, l’invèrn l’hä mai mängià ‘l luv.
Novembre era il mese dei rientri. Gli emigranti stagionali tornavano dai loro lavori nelle pianure o nelle città d’oltralpe, gli alpeggi erano stati ormai ‘scaricati’, gli ultimi frutti raccolti e i campi preparati per l’inverno. Le famiglie erano finalmente riunite e c’era tempo da dedicare alla vita sociale. In questo periodo, la terza domenica del mese, i casalesi avevano collocato la festa della loro copatrona, la Vergine del Rosario, ricordata come Mädònä dij mätän, Madonna delle ragazze. Ragazze che una settimana prima organizzavano una questua che le portava, a gruppi di tre, in tutte le case del paese a raccogliere le offerte per la parrocchia. Recavano un ramo secco – simbolo della stagione - adorno di nastri colorati, di nocciole e di dolciumi che venivano distribuiti in cambio dell’obolo ricevuto.
Il 25 novembre si festeggia santa Caterina d’Alessandria e për säntä Cätärinä ij vach ä lä cässinä, ij pèvär ä lä provinä e ij crav ä lä giavinä. Naturalmente, per ben gestire la stalla, inprumä ‘s tràa fòo ‘l làam e peui ‘s tirä dént ël stràam. Chi ha orecchio per intendere…
Për sänt’Ändréä ël frëcc äl montä in cädrègä, a sant’Andrea, 30 novembre, il freddo comincia veramente a farsi sentire. In valle Strona si festeggiava il rientro degli emigranti stagionali, palai e peltrai. Altrove questa era la notte dei morti viventi, che l’inverno è tempo di tenebre e malefici.
E di neve.
2 dicembre, santa Bibiana, di’d marcä: së fiòcä për säntä Bibiänä, fiòcä për quäräntä dì e ‘nä smänä. 40 è un altro numero magico, di solito legato ad eventi infausti, una specie di maledizione ricorrente nel calendario tradizionale. Quaranta giorni durarono il diluvio universale e il digiuno di Cristo nel deserto, quaranta giorni dura la Quaresima e per quarant’anni il popolo d’Israele vagò nel deserto alla ricerca della terra promessa.
Il 6 dicembre si ricorda san Nicola. Si racconta che Niklaus, vescovo di Mira, in Siria, usasse aiutare i suoi concittadini aggirandosi di notte e lanciando doni dalle finestre. Una volta l’obolo finì dentro una calza stesa ad asciugare e da qui nacque la leggenda di uno spirito benefico vestito di rosso – colore della tonaca vescovile - che porta doni nelle notti d’inverno. Nel nord Europa il santo vescovo, con il nome storpiato in Santa Klaus, arriva nel giorno della sua festa a portare doni ai bambini buoni mentre il suo assistente, l’orrido gnomo Knetcht Ruprecht, sferza i cattivi con la sua frusta.
Nel nord Italia è invece santa Lucia, ricordata il 13 dicembre, a dispensare i doni. Li depone nelle scarpe che i bambini lasciano a sera sul davanzale di una finestra, insieme a un poco di fieno per l’asinello che li trasporta. Giovannino Guareschi ricordava questa tradizione della sua Emilia in uno dei deliziosi racconti di Natale, intitolato proprio L’asino di Santa Lucia.
Nel calendario antico il solstizio d’inverno, momento di minor durata della luce diurna, cadeva proprio in questo giorno, tanto che säntä Luziä l’è ‘l dì pussè curt chë’gh siä.
Gli antichi indoeuropei, provenienti dall’estremo settentrione, avevano terrore del buio invernale, temevano che il sole, inghiottito dall’interminabile notte artica potesse non tornare a riscaldare e fecondare la terra. Da qui tutta una serie di riti propiziatori tra i quali, in Scandinavia, la processione delle vergini della Luce, con il capo adorno di lumi, cui si riallaccia il nome di Lucia, portatrice della luce.
Nel calendario attuale il solstizio d’inverno cade il 21 dicembre, giorno di san Tommaso; infatti sän Tomà, né ‘l và né ’l stà.
In questo periodo i romani celebravano i Saturnali, festa di Saturno, dio delle tenebre. Nei territori occitani e di più radicata tradizione celtica si esegue la danza delle spade, lo bal do sabre, rito di difesa dall’oscurità. I vichinghi posizionavano sulle più alte vette le sentinelle della luce, con il compito di segnalare con il suono dei corni il ricomparire del sole all’orizzonte meridionale.
E la luce ritornava, pochi giorni dopo il solstizio, vittoriosa sulle tenebre e festeggiata proprio come il Sole Invitto. Aveva inizio un lungo periodo di allegria, le dodici notti magiche (dodici, si badi bene). Nei focolari veniva acceso lo Jól, un grande ceppo che doveva ardere di fuoco perenne e sventura avrebbe colto la famiglia che lo avesse lasciato spegnere.
Cosa poteva fare la Chiesa, se non sovrapporre ai festeggiamenti per la rinascita della luce quella che commemorava l’analogo evento, il Natale di Cristo, luce dell’umanità. Quel Natale che i cristiani delle origini festeggiavano a fine marzo e che solo dopo alcuni secoli venne spostato in questo periodo, per ovvi motivi. Për Nädal ël pass d’on gal. Ma è anche di ‘d marcä: Nädàl äl sol, Pasquä äl tizzón.
Quella della vigilia di Natale è una notte magica, di grande pace, durante la quale gli animali prendono a parlare tra di loro e, a chi li sa ascoltare, rivelano i luoghi ove si celano antichi tesori. La mattina successiva le madri usavano lavare i neonati con acqua scaldata su un fuoco di rami di ginepro (brisciol), cosi come fece la Vergine col santo Bambino.
Ben diversa la notte del 31 dicembre, giorno di san Silvestro Papa. Notte di tregenda, nella quale si scatenano gli spiriti maligni. Per allontanarli servono luce e rumore ed ecco che per i vicoli dei paesi si aggirano gruppi di uomini muniti di torce e armati di bastoni che sbatacchiano fragorosamente; spari ed esplosioni, naturalmente, amplificano l’effetto dell’esorcismo.
Altrove si eliminano gli oggetti vecchi e inutili lanciandoli dalle finestre e nel rogo dell’anno vecchio, sotto forma di fantoccio di paglia, si immagina di bruciare ogni negatività del passato per far posto al nuovo e migliore – si spera – in arrivo.
Epifania, la dodicesima notte magica, chiude il ciclo delle feste d’inverno. Epifania, la prima manifestazione di Cristo – che viene pubblicamente presentato ai Magi, rappresentanti di tutte le genti del mondo – tanto da essere popolarmente citata come Pasqua Befanìa, anticipazione quindi della Pasqua, vera manifestazione della potenza divina nella Resurrezione. In alcune regioni si appendevano pane, sale e dolciumi ai rami dei meli per risvegliarne la fertilità mentre un uomo con maschera di toro - simbolo di vigore e fertilità – si aggirava per le campagne. Riti di questua si tenevano in molti paesi, così come le rappresentazioni della Stella e del Gelindo, recite popolari che ricordano ancor oggi l’adorazione dei pastori e l’arrivo dei Magi. E proprio di loro parla il Canto dei Tre Re, antica melodia che accompagna e chiude tali rappresentazioni, così come le funzioni religiose.
A Colloro di Premosello è ancora vivo il rito della Carcavègia, falò rituale di un fantoccio di paglia che ricorda la leggenda secondo la quale alcuni burloni furono mandati al rogo dai Magi per aver loro fornito false indicazioni circa il percorso verso Betlemme.
Terminate le ‘feste’ ha inizio il periodo più duro dell’anno, quello del maggior freddo e delle nevicate più intense. Cadono in questa seconda parte di gennaio le ricorrenze di alcuni santi particolarmente venerati nelle nostre zone, santi che la gente soprannominò mërcänt ëd fiòcä.
Il 15 san Mauro abate, il fido collaboratore di san Benedetto, che i montanari invocavano come protettore dai lupi; il 17 sant’Antonio abate, protettore degli animali domestici, nella cui festa viene benedetto il sale che servirà per allontanare le epidemie di afta. E ricordiamo che ormai, a quasi un mese dal solstizio, il giorno si è sensibilmente allungato: për sänt’Äntòni, n’orä bonä.
Il 22 gennaio è san Gaudenzio, primo vescovo di Novara.
Il 31 san Giulio fa il paio con il fratello Giuliano, celebrato il giorno 9. Troppo spazio richiederebbe la narrazione delle infinite leggende legate ai due monaci che, partiti dall’isola greca di Egina con il voto di erigere cento chiese – tanto che Giulio è considerato patrono dei muratori – arrivarono a portare il cristianesimo nel Cusio. La cacciata di Giulio da Omegna a bondonài , la traversata del lago sul mantello, la liberazione dell’isola dai draghi, la costruzione delle due basiliche con l’impiego di un unico martello che i due fratelli si lanciavano da un colle all’altro, il lupo aggiogato al carro di legname…
Ricordiamo invece come i due santi fossero invocati contro ogni sorta di pericolo naturale: sän Giuli e sän Giuliän an vardän dlä lòsnä e däl trón, dij luv, dij sërpént e dlä gramä sgént.
Periodo di gran freddo, quindi, culminante nei tre giorni che Gennaio, un tempo il mese più corto, si fece prestare dal fratello Febbraio – dimenticandosi poi di restituirli – per vendicarsi di chi lo aveva sbeffeggiato per tale brevità. Furono giorni di bufera e della sua furia rischiò di pagare il fio una povera merla, mitico animale dal candido piumaggio, che per salvare sé stessa e i suoi piccoli non trovò di meglio che rifugiarsi nel comignolo di un casolare dove il fumo li mantenne sì al caldo, ma li ridusse per l’eternità al cupo colore che tutti conoscono. Sono però giorni di passaggio, che annunciano l’approssimarsi della primavera, e la buona stagione viene invocata con riti scaramantici che prevedono scherzi individuali, ma anche – a Casale, Borca, Fondotoce, Suna – questue e cene collettive: ä l’è mòrtä, l’è mòrtä! Fòo sgiänèr, dént fëvrèr, viva lä mèrlä gridavano i questuanti sotto le finestre dei ‘riveriti’, bruscamente svegliati in piena notte.
Periodo di gran freddo, si è detto, ma il 21 gennaio për sänt’Ägnésä, lä lisèrtä in su lä scésä. E pochi giorni dopo, il 2 febbraio, è Candelora, festa della luce propiziata dalle candele accese la vigilia. E dì ‘d marcä. Për lä Cändelòrä, së fa vént e òrä për quäräntä dì sommän fòrä, së fa né òrä né vént per quaräntä dì somän dént. Ä Candelora dä l’invern ä somän fòra. Candelmas per i celti, secondo i quali Bride, dea della luce, si libera dalla grotta di ghiaccio in cui l’aveva imprigionata la strega dell’inverno e torna a spargere i suoi frutti sulla terra. Quella Bride che la chiesa cristiana sublimò in santa Brigida, patrona d’Irlanda.
Il 3 febbraio, san Biagio protegge dai mali di gola, che viene benedetta con le stesse candele utilizzate il giorno precedente. Il 14 san Valentino si prende invece cura degli innamorati e ricorda che për sän Valëntin, lä prumavérä l’è visin, senza però scordare che ël sol ëd fëvrèr, l’è gram comè ‘n sbér e che, ogni quattro anni, an bisèst, ass marìä incä ij tëmpèst.
Febbraio è soprattutto il mese del Carnevale, il periodo del ‘mondo alla rovescia’ quando i signori trasferiscono per qualche giorno il potere al popolino, passandogli le chiavi delle città e lasciando che questo si diverta con ogni sorta di stramberia. Sono cinque giorni – dalla giobiasciä al martis grass – segnati da un’infinità di riti pagani – troppi per poterne parlare diffusamente nel breve spazio di un articolo - dalla segagione della vecchia al rogo del carnevale, ai corsi mascherati e alle battaglie rituali.
Il baccanale termina però, inderogabilmente, alla mezzanotte del martedì, quando ël cämpänón, la campana principale delle chiesa parrocchiale, batte tredici rintocchi. Con il mercoledì de Le Ceneri inizia la Quaresima, quaranta giorni di silenzio, digiuno e penitenza. Con le dovute eccezioni però, come le varie osterie in cui, proprio quel giorno e con spirito apertamente anticlericale, gli uomini si ritrovavano a mangiare nërvìt, insalata di tendini.
Ma con la Quaresima esplode la primavera e gli animali, anche i più molesti, si risvegliano dal letargo e vän in amor: schisciä ij puläs marzareui, chë crèpä pà e fieuj. Il tempo fa le bizze e non è da escludere qualche tardiva nevicata, ma quänd a fiòcä in su la fòjä, l’invèrn äl dà pù nòiä. E anche gli umani sentono più forte il richiamo della natura, e lo ricordano con riti come il Cantarmarzo, ad Agrano e Carcegna, quando nelle notti primaverili gruppi di burloni si lanciano richiami da un cocuzzolo all’altro, combinando ipotetici e strampalati matrimoni che vengono suggellati dal suono di corni e campanacci.
Cadono in questo periodo le feste di san Giuseppe, il 19 marzo, e di san Benedetto da Norcia, il 21, in corrispondenza con l’equinozio di primavera. E soprattutto, il 25 marzo, nove mesi prima del prossimo Natale, l’Annunciazione di Cristo.
Ma ormai siamo ad aprile, mese di piogge per antonomasia. Äprìil, äss lavä lä squélä e ‘s vàa dromìi, ricordando che l’acquä quätagnä l’è colä ch’lä bagnä.
Arriva infine la Settimana Santa, aperta dalla domenica delle Palme, dì ‘d marcä: së piòv për lä Ramolivä, piòv sèt domingh dë filä. E’ la settimana delle sacre rappresentazioni della passione, come la processione ‘dei giudei’ che veniva messa in scena dai bambini di Casale: nel pomeriggio del giovedì Santo si ritrovavano in un prato per piantarvi una piccola croce e far festa con un’allegra merenda.
Il Venerdì e il Sabato Santo tacciono le campane, per rispetto al Cristo sepolto, e i fedeli vengono chiamati alle funzioni con strumenti improvvisati, agitati sul campanile o portati per i vicoli dai bambini: tich e tach, timblèch e chin chër. La mattina del Sabato Santo le donne benedicevano i pollai, per allontanarne i pidocchi dei polli, e gli occhi ai bambini, per preservarne la vista, con l’acqua attinta a tre diverse fontane.
Pasqua e Pasquetta sono giorni di festa, ma anche ëd marca: vëgnä Pasquä quänd gh’ha vòjä, särà mai sënzä lä fòjä; Pasquetta, bianca lasagnetta; chi mängiä miä läsagnä, tut l’an ël cäragnä.
Il 25 aprile, oggi anniversario della Liberazione, cade la festa di san Marco evangelista, protettore dei setaioli. A Casale si celebrava la procissión dij bigat , durante la quale venivano benedette e portate solennemente in processione le uova dei bachi da seta, prima di essere depositate, in ogni casa, sui graticci dove si sarebbero schiuse e dove i preziosi insetti avrebbero prodotto i bozzoli di filo che per secoli rappresentarono un importante fonte di guadagno per le famiglie della nostra zona.
A cavallo tra fine aprile e inizio maggio cade la notte di santa Valpurga, ricordata nei paesi germanici come momento di terrore, durante il quale si scatenano le forze del male. Ma soprattutto cade la festa celtica di Beltaine, la celebrazione della primavera e della forza vitale, che gli antichi solennizzavano con falò rituali e orge sacre. Ne rimane un ricordo nei riti del Maggio, quando si rubavano e si piantavano nelle piazze gli alberi di maggio –ad Ameno, Bolzano Novarese, Briga Novarese, San Maurizio d’Opaglio – alberi che venivano adornati di nastri colorati e intorno ai quali i giovani danzavano prima di venderli all’asta e, con il ricavato, procurarsi una merenda in allegria. A Casale Corte Cerro sopravvive il rito della questua, effettuata di notte da un gruppo di uomini che sotto le finestre dei maggiorenti porta l’augurio di una buona e proficua stagione, nel ripetersi di un rito magico e scaramantico che risale alla notte dei tempi: sarà mai ‘nä bèlä està finché Masc särà cäntà…
Maggio è il mese dei matrimoni e il giorno 17 si festeggia san Pasquale Baylon, protettore delle donne in quanto inventore dello zabaione, sommo rimedio alla ‘fiacchezza’ dei mariti. Ma sarà bene ricordare che ij dòn e ij frassän, guà lässai indoä nassän; lä dònä? ch’lä piasä, ch’lä tasä e ch’lä stagä casä… E l’òm? Quänd l’è pénä pussè bél che ‘n cän, l’è sé! E per finire vardèv dlä lòsnä e däl trón… e dij dònn dë Migiändón.
Maggio è mese di piogge abbondanti e di giorni segnatempo. Esaltazione della Santa Croce, il 2: së piòv për Säntä Cros, va dë màal nisciòl e nos. San Gottardo il 4: së piòv për sän Gotard, për quäräntä dì fa notä d’aut. L’Ascensione, quaranta giorni dopo Pasqua: së piòv pë’l dì dlä Scénzä, për quäräntä dì somän miä sénzä. Santissima Trinità, la domenica dopo Pentecoste, së piòv për lä Trinità, piov për sèt fèst infilà.
E le piogge portano freddo, tanto che së ‘l ghi incorä on quai sciuscasc, tignil viä pë’l més ëd masc e che srëgn ëd neucc, äl val on pieucc.
Durante i tre giorni precedenti l’Ascensione si celebravano le Rogazioni, processioni che attraversavano i campi e si fermavano ad ogni cappelletta devozionale dove il sacerdote deponeva una piccola croce di cera e recitava la formula benedicente: “A folgore tempestatis libera nos Domine” cui il popolo rispondeva: “Te rogamus, audi nos”, anche se spesso le pie donne finivano per storpiare il latino in formule del tipo “T’è rugà int ël sach dij nos”. In processione veniva a volte portato un serpente di latta montato su una pertica: il primo giorno marciava orgoglioso in testa al corteo, ad ali spiegate, testa alta e coda protesa, il secondo stava in mezzo alla gente e il terzo arrivava ultimo, a cresta bassa, simbolo del demonio sottomesso da Cristo glorioso.
Il 13 giugno si celebra sant’Antonio da Padova, invocato per ritrovare gli oggetti smarriti con la formula sänt’Äntòni värdè giù, fèm trovàa col ch’ij ho përdù.
Il 24 giugno la natività di san Giovanni Battista, unico del calendario del quale vengano ricordati sia la nascita che il martirio, cade in prossimità della mezz’estate, il solstizio. E’ la notte in cui le streghe celebrano i loro sabba, ma è anche il momento in cui si raccolgono le erbe medicinali e le noci acerbe per farne un famoso liquore. E si benedicono i bambini, in memoria del santo Battista.
L’estate era un tempo stagione morta per i paesi. Gli abitanti erano quasi tutti negli alpeggi, gli uomini validi partiti per l’emigrazione stagionale e la vita sociale ridotta al minimo. Stagione di lavoro e di temporali, durante la quale si feteggia, il 12 luglio, sant’Uguccione (o Lucio), detto sän Ligozzón, patrono dei casari e rappresentato sempre con una forma di cacio, tanto che il suo nome dialettale è divenuto sinonimo di goloso.
22 luglio säntä Märiä Mädälénä, grän acquä lä ménä mentre il 26 è sant’Anna e për sänt’Anä, l’acquä l’inganä, quindi è bene tenersi lontani dagli specchi d’acqua e non farsi tentare dalla voglia di un tuffo rinfrescante.
Ël prum tëmporal d’ägost, ël rinfrëscä ‘l bosch, ma tëmporal dlä sérä për tri dìi ‘l fa férä, tëmporal dlä mätin gh’ha né cò né fin, tëmporal dël dòp disnà, a l’è prëst dismëntigà.
Ad agosto i celti festeggiavano Lug, dio della luce, con falò rituali che ancor oggi vengono accesi sugli alpeggi nella notte della Mädònä d’ägost, Ferragosto. Il 16 si festeggia san Rocco, per secoli invocato come protettore dalla peste, ricordando che për sän Ròch, i risc ä tir dë s-ciòp.
Il 24, san Bartolomeo: per sän Bärtolamé, buzzä dët nëgn e dë drè. E infine: ägost, giù ‘l sol l’è fosch.
A settembre si ricorda san Grato, il giorno 7: sän Grà e sän Simón än vardän dlä lòsnä e däl trón; il 22 san Maurizio, comandante della Legio Tebensis, massacrata a Saint Maurice du Vallais nel 286 d.C. e, il 29, i santi arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele: për sän Michèl, lä märèndä lä và in ciél.
Il ritorno dell’autunno segnava il ripopolarsi dei paesi, la ripresa dei lavori domestici e soprattutto il tempo dei raccolti in particolare della vendemmia. Il primo ottobre, san Remigio, riaprivano le scuole e il 6, san Renato, si assaggiava il vino nuovo: për sän Renà, distupä lä bot incä ‘l curà, mentre il 16, san Gallo, è dì ‘d marca: së fa bél për sän Gal, fa bél fin Nädal, una volta tanto con un buon presagio. Il giorno di san Luca, 18 ottobre, segnava la fine delle semine: për sän Lucä, chi n’ha miä sëmnà ch’ël plucä e il 28 për sän Simón, calä lä rävisciä e crëss ël bondón.
Ecco, siamo di nuovo a Sahmain. Il cerchio si chiude, il serpente ancora una volta si morde la coda e noi abbiamo terminato il nostro viaggio intorno all’anno.
Ci ritroviamo un poco più vecchi e, speriamo, un poco più saggi.
Massimo M. Bonini, barba Bunin, Casale Corte Cerro (VB)