CASALE CORTE CERRO E LE SUE FRAZIONI
I nomi tradizionali
degli abitanti com l’è che’s ciaman ij sgenti
Casale Casàal motogn arieti, montoni
Frazioni "storiche", di sviluppo antico
Arzo ij Ars crav capre
Arzo ij Ars crav capre
Cafferonio Cafärogn morfogn gatti
Cereda Scërëiä mäcäiogn mocciosi
Crebbia Crëbbiä s-ciopëtìt schioppetti
Montebuglio Buj orchìt orchetti
cui dlä lunä quelli della luna
Ramate Rämà ciäpolìt diavoletti
Ricciano Risciän cägn cani
Tanchello Tänchè oloch allocchi, gufi
Per le altre frazioni, di sviluppo più recente, non esistono denominazioni tradizionali degli abitanti
Cassinone Cässinón
Crottofantone Catfäntón
Gabbio Gabi
Pramore Prämor
Sant'Anna Sänt'Anä
Per le altre frazioni, di sviluppo più recente, non esistono denominazioni tradizionali degli abitanti
Cassinone Cässinón
Crottofantone Catfäntón
Gabbio Gabi
Pramore Prämor
Sant'Anna Sänt'Anä
LA LEGGENDA DELLA MERLA
Si narra che un tempo i merli fossero
bianchi come la neve, ma un brutto anno Gennaio, che era allora il mese più
corto, si fece prestare tre giorni da Febbraio e imperversò con tali bufere e
gelate da costringere una merla a cercar rifugio dentro un comignolo per non
morire congelata.
Si salvò, ma da allora il suo piumaggio,
divenuto nero di fumo e caliggine, si trasmise a tutti i suoi discendenti.
In questi giorni l'inverno giunge al culmine
e comincia a declinare verso la nuova primavera. Un tempo i giovani usavano
girare di casa in casa motteggiando i residenti e concludendo i loro scherzi
con la tiritera: "Ä l'è mortä!.. L'è mortä!.. Fòo Sgiänèr, dent
Fëvrèr, vivä lä mèrlä!.." (E' morta, è morta!.. Fuori gennaio,
dentro febbraio, viva la merla!..)
LA CAPPELLA DELLA TURIGIA
Correva l'anno 1630 o 1631 e la peste,
quella resa tristemente famosa dal Manzoni, imperversava per tutto il ducato di
Milano ed era giunta fino ai confini dell'Ossola, mietendo vittime a
Gravellona.
Casale ne era ancora immune, ma gli
abitanti, temendo il propagarsi del terribile morbo, cercarono di correre ai
ripari con l'aiuto della Divina Provvidenza: fatta benedire una pagnotta, la
portarono in solenne processione fino al roccione che dominava, e domina tutt'ora,
l'antica strada di collegamento tra i due paesi, lasciandovela infissa su di
una pertica; poi si ritirarono tutti nelle loro case e attesero in preghiera.
Alcuni giorni dopo il contagio cominciò a
scemare e non vi furono più ammalati gravi in Gravellona; nessun casalese era
stato colpito, ma la pagnotta benedetta fu trovata completamente annerita nella
metà rivolta verso il paese vicino e ancora bianca dalla parte di Casale.
Nel luogo del miracolo, lä Torigiä nella
toponomastica locale, dimora del leggendario aspär, il serpente alato, venne eretta una cappelletta votiva.
L'attuale cappelletta, con gli affreschi
rappresentanti la Madonna di Re, S. Eustacchio e S. Gottardo, è stata
ricostruita, probabilmente, alla fine del secolo scorso.
IL CROCEFISSO DI RAMATE
Si dice che casa
Battaini, precedentemente Beltrami, quella che sul fianco esterno reca il
pregevole affresco raffigurante S. Anna con la Madonna bambina, in passato
fosse adibita a monastero dei Cappuccini, o comunque a luogo di preghiera. Il
crocifisso del XVII secolo, in legno di fico, che da molti anni impreziosisce
la chiesa parrocchiale ed è particolarmente caro ai ramatesi, fu trovato nel
solaio di questo edificio.
Dicerie fantasiose circolano intorno alla
figura di uno dei suoi antichi proprietari: pare che costui producesse
abusivamente liquori e, scoperto, venne arrestato. In quel periodo transitava
per il Gabbio un battaglione sabaudo diretto a Baveno e la moglie, disperata,
lo intercettò per chiedere la grazia per il marito ad un alto personaggio della
corte reale al seguito dei militari: la grazia che fu concessa.
Si racconta inoltre che il medesimo
personaggio, ricco e severo possidente terriero, munito di cannocchiale, dal
terrazzo di casa controllasse i suoi lavoranti nei campi. La piana di Ramate
era una vasta area agricola e di certo si trattava di appezzamenti molto
fertili: basti pensare che molti abitanti di Montebuglio erano proprietari di
questi terreni e li avevano adibiti a colture che in alto davano poca resa,
soprattutto canapa, poi macerata negli appossiti pozzi (puzz däl canau) presso la Strona, e segale (biavä) che i ramatesi portavano al mulino di Casale per la macina.
Gli stessi montebugliesi erano pure
proprietari di varie cascine che, durante la costruzione della ferrovia e dello
stabilimento Furter, sorto sui resti di un'antica cartiera (i Miglino scesero
da Valduggia per il lavoro di cartai ed andarono ad abitare in quella che era
stata la scuderia dei signori Beltrami), furono trasformate in case
d'abitazione.
Tornando allo storico crocefisso, vogliamo
riportare in merito un brano dell'articolo Bricicche di folcklore, pubblicato
da R.N. Cesare sul Bollettino Storico della Provincia di Novara (n. 3, 1933)
che ci pare particolarmente significativo nel ricordare come "il
Crocefisso, intagliato in legno da artista ignoto, raccoglie da quasi due
secoli la venerazione della popolazione che lo esponeva sull'altar maggiore nel
giorno della sua festa (3 Maggio) e, in caso di particolari calamità, lo
trasportava (in processione, n.d.r.) alla
chiesa parrocchiale di Casale" (nota storica da un'immaginetta del
?1922).
"A invocare la pioggia nella persistente siccità, si porta fuori il
Crocefisso di Ramate, vecchio di almeno tre secoli, di ignoto artefice, che si
regge orizzontalmente, come se si reggesse un feretro, forse perchè essendo
assai alto, per la strada in pendio che da Ramate conduce al centro, urterebbe
negli alberi e nelle siepi."
"L'oscuro artista che lo concepì e lo lavorò doveva avere
un'inconscia anima meditativa e un chiuso ardore mistico. La figura è
impressionante, senza avere nulla di quel verismo atroce che è in certi
crocefissi di campagna: il Cristo che piega il viso tra le lunghe chiome, ha
nell'atteggiamento la coscienza di un destino ineluttabile, d'un sacrificio
senza paragone a cui le forze piegano. Vederselo davanti, ritto nel breve
spazio tra un altare e la balaustra, da un senso di abisso, come se ogni
aspetto e ogni ragione di vita fossero per disparire; le donne più semplici lo
guardano, pregando, con smarrimento."
"Quei di Ramate ne sono gelosi e vedono malvolontieri che lo si
trasporti in parrocchia, sia pur per breve tempo."
"Esposto sotto l'atrio della loro chiesetta, dicono, non tarda ad
ascoltare le suppliche: nubi gonfie salgono dalle gole dell'Ossola, nubi grigie
velano lo Zeda; il Montorfano si mette il cappello, Toce e Strona scompaiono
nella nebbia che riempie la valle e l'uragano si sferra."...
I CONTI DI CERRO
Il borgo di Cerro, centro fortificato di
antica origine, sorgeva ai piedi del Cerano e sulle rive del lago Maggiore, che
allora spingeva sin li le sue paludi, nel luogo ove ora si trova il cimitero di
Gravellona Toce (canton Wu).
I Conti di Cerro, signori del borgo omonimo,
erano dei buoni nobili, cristiani e sostenitori della fede. La loro dinastia
giunse al massimo splendore negli anni delle crudeli lotte tra Guelfi e
Ghibellini, gli uni partigiani del Papa, gli altri accesi sostenitori
dell'imperatore tedesco, il cui dominio si estendeva su buona parte
dell'Italia. Era difficile tenersi fuori da quelle guerre e i nostri conti si fecero
paladini della causa pontificia.
Un triste giorno i Ghibellini di Novara
ebbero il sopravvento sui loro avversari e vollero sbaragliarli completamente,
eliminandone tutti gli alleati. Fu così che una notte il borgo di Cerro venne
assalito di sorpresa. La resistenza fu lunga e valorosa, ma nulla potè contro
il numero soverchiante degli avversari: il paese fu incendiato e raso al suolo,
la popolazione decimata, ma i conti riuscirono a fuggire attraverso un
passaggio segreto che portava fuori dalle mura e sino al fortilizio
appositamente edificato su un poggio del monte sovrastante, Piänä Cäšlëtt, il ripiano del
castelletto. Ad essi si unirono altri superstiti, si portarono nel luogo ove
ora sorge Casale e qui si stabilirono, in alcuni alpeggi di loro proprietà, i
casali della corte di Cerro, da cui il nome del nuovo insediamento.
Del vecchio borgo non rimasero che la
chiesetta di San Maurizio e un torrione sbrecciato e semidiroccato, all'interno
crebbe col tempo un rigoglioso albero di cerro: lo stesso torrione e la stessa
quercia che ancora campeggiano sul gonfalone del comune.
Questa è la
leggenda che si tramandata, riferita ai tragici avvenimenti del 1312-1314; a
tratti risulta ben diversa dalla realtà storica, così come si è potuto
ricostruirla a tanti secoli di distanza.
Nessun documento cita i conti di Cerro; si
può invece affermare con buona certezza che il borgo fortificato, posto in
un'importante posizione strategica, lungo la via Francisca che collegava Novara
e la pianura, attraverso il Cusio, con l'Ossola e il nord Europa, facesse parte
del feudo dei Nobili, conti di Crusinallo, probabilmente ramo collaterale della
famiglia Del Castello - o Da Castello - signori di Pallanza. Tale dominio ebbe
due brevi interruzioni: la prima nell'XI secolo quando, a seguito di complicati
sovvertimenti, il dominio venne assegnato per tre quarti alla badia (abbazia)
di Arona e per il resto al vescovo-conte di Novara, l'altra pochi decenni più
tardi quando fu conquistato dal comune di Novara, durante la guerra combattuta
da quella città contro Pallanza e l'Ossola inferiore
Nel corso delle lotte tra Papa e Imperatori,
Novara, come daltronde le maggiori città dell'Italia centro settentrionale, si
divise in due fazioni: i Guelfi, capeggiati dai Brusati, e i Ghibellini,
guidati dai feroci Tornielli; i Cavallazzi, la terza grande famiglia cittadina,
si detreggiavano tra le due parti. E' comunque certo che tali nobili casate si
fronteggiassero soprattutto per interessi particolari, legati fondamentalmente
al dominio del territorio, riparandosi solo per comodità dietro i due partiti;
nello stesso modo si comportavano poi tutti i signorotti della provincia, che
avevano in corso un'infinità di faide e diatribe minori.
Non si sa con esattezza se i Crusinallo
furono sempre legati alla parte "sanguigna" (i guelfi Brusati) o se
anch'essi giocassero d'avvantaggio, passando disinvoltamente dall'una all'altra
delle due fazioni. Le cronache di quei tempi raccontano però di tal Aymerico da
Croxinallo, condottiero di ventura detto "il Rabbia" per la sua
ferocia. Costui nel 1258 fu nominato da Torello Tornielli, allora esule a
Pavia, comandante in capo delle milizie di parte "rotonda"
(ghibelline) per la spedizione di riconquista di Novara, da cui i Brusati
l'avevano cacciato. Il Rabbia conquistò la città - probabilmente nel 1260 - ed
ebbe modo di dare ampia dimostrazione delle sue sanguinarie tendenze: si era
appositamente condotto appresso un carro carico di "scaiones"
(paletti appuntiti) di cui si servì per accecare quanti avversari ebbero la
sfortuna di cadere viv nelle sue mani. I disgraziati sanguigni non dovettero
essere pochi, visto che gli statuti cittadini del 1277 facevano obbigo al
podestà di espellere da Novara tutti i ciechi, tranne coloro divenuti tali per causa
di Aymerico.
Nel 1310, dopo varie vicende di tal tipo,
l'imperatore Enrico VII scendeva in Italia e imponeva la cessazione delle
ostilità; il 18 dicembre entrava in Novara riconducendovi i ghibellini, ancora
una volta esuli. Ma la pace durò poco: nel Giugno successivo i Tornielli
scacciarono dalla cità i loro eterni avversari e questi si rifugiarono nei
borghi e nelle campagne, soprattutto sulla riviera del lago d'Orta e nel feudo
dei Crusinallo. Questa volta i ghibellini pensarono di stroncare definitivamente
la resistenza dei Brusati e dei loro alleati e organizzarono una formidabile
spedizione punitiva contro chi li aveva accolti. Tra il 1311 e il '12 molte
furono le località assalite e crudeltà ed eccidi si sprecarono.
Omegna riuscì a respingere gli assalitori
grazie alle robuste fortificazioni e al rilevante numero di difensori,
Crusinallo fu solo in parte distrutta, ma la furia devastatrice degli
attaccanti si riversò in pieno sul borgo di Cerro. Nonostante le fortificazioni
il luogo venne rapidamente espugnato, l'abitato incendiato e le sue rovine rase
al suolo, la popolazione dispersa o massacrata. Sulle rovine fumanti venne
"sparso il sale": era severamente vietato ricostruire nel raggio di
due miglia, tranne che oltre il Toce, in territorio di Mergozzo, e oltre la
Strona, ove già esistevano i due nuclei antichi di Gravellona, il Motto e la
Baraggia.
I pochi scampati all'eccidio ripararono
effettivamente "sui poggi del Cerano", nelle "villae" già
di loro proprietà sorte attorno alla chiesetta dedicata a S. Giorgio martire,
nei pressi dei villaggi preesistenti (Arzo, Buglio, Cereda, Ramate): così
nacque la Corte di Cerro. Mantennero però la proprietà dei terreni e i diritti
di dominio al piano, tanto che Gravellona dipese da loro ancora per lungo
tempo.
Alcuni altri superstiti si rifugiarono
invece sulla sponda lombarda del Verbano, fondandovi il paese di Cerro, ora
frazione di Laveno.
LE TRADIZIONI DELLA SETTIMANA SANTA
La Settimana Santa dovrebbe essere
tutt'altro che una festa, ma a Montebuglio le cose funzionano diversamente. A
metà della messa del giovedi la campana a morto annuncia l'inizio della Sacra
Agonia, da allora tacerà per due giorni; ma finita la funzione chi darà il
segnale dell'Ave Maria? E domani, chi chiamerà i fedeli? Ma i ragazzi,
naturalmente!
E allora via, con timblècch e chinchër e
quant'altro si presti a far chiasso, per una buona mezz'ora e per tutti i
vicoli. Questa sera e le prossime due, la celebrazione della Passione si
trasforma come d'incanto in una festa di primavera, dal sapore piuttosto
pagano.
E d'altronde, non era detta processione dei giudei quella che
il pomeriggio di Venerdi Santo svolgevano gli adolescenti di Casale, andando a
piantare una piccola croce nei prati di Mauleia, presso l'attuale Getsemani, e
godendosi poi una merenda all'aperto?
A Casale invece, un'apposito apparecchio, la
tich e tach, una tavola portante
alcune pesanti maniglie metalliche, veniva agitato nella cella campanaria, così
che il suono raggiungesse tutto il paese.
Chinchër: raganella; sorta di scatoletta in legno che, fatta
ruotare attorno a un ingranaggio pure di legno fissato a un perno con
impugnatura, produce un tipico rumore raspante.
Timblècä: tavoletta in legno con impugnatura nella parte
inferiore e un martelletto oscillante su quella superiore; il rapido movimento
del polso manda il martelletto a battere alternativamente sui due lati,
producendo un ticchettio penetrante. In senso lato viene definita timblècä una persona che usa parlare a
raffica.
FANTASMI E NO - ËL PASÓN
L'uomo dal passo
pesante
Il barba (zio) Sctevän, che abitava ad Arzo, sentiva durante certe buie notti
d'inverno strani rumori nella strada prospiciente casa sua: dei passi lenti e
pesanti, come se qualcuno camminasse calzando grossi scarponi ferrati e
portando un greve peso sulle spalle, ma scrutando dalla finestra non si
scorgeva passare nessuno. Era uno spirito e il barba l'aveva soprannominato Pasón.
Piuttosto preoccupato, il buon Stefano, uomo
devoto e timorato di Dio, chiese aiuto al parroco e questi gli consigliò di
uscire senza timore nella via e chiedere apertamente al fantasma cosa lo
tormentasse; in base alla risposta si sarebbe studiato poi il modo di
"confinarlo".
Il piano venne messo in atto e il Pasón cessò finalmente il suo tormentato
peregrinare. Barba Sctevän non volle
mai confidere ad alcuno chi realmente fosse stato e a quale prezzo avesse
infine ritrovato la pace.
MÄGÓN
La Mägón era una bottegaia, probabilmente
proprietaria di uno di quei negozietti di paese dove si vende un po' di tutto.
Gli affari però non prosperavano e la donna, già sparagnina di natura, prese a
truffare i clienti con l'aiuto di una bilancia truccata.
Anche per lei la punizione venne dopo la
morte: il suo spirito dannato vagava nottetempo tra gli acquitrini del Pozzarach e, non avendo neppure diritto
a dimorare nel camposanto, durante il giorno si nascondeva in un pozzo, al Cäntón.
Destino simile toccò a un ex cuciniere
dell'esercito regio, uso ad appropriarsi del formaggio destinato al rancio
della truppa: i tetti di Casale videro per notti e notti il fantasma vagare
senza meta, lamentandosi e trasportando le pesanti forme di formacc dä grätâ (grana).
ÄL
FORN DLÄ CUSC
L'antro della strega
La Cusc era una donna selvatica, con il
corpo completamente coperto di peli, che abitava con il suo piccolo in un antro
sotto Pra Mauleia - presso il Getsemani - che i Casalesi avevano denominato äl forn dlä Cusc. Aveva fama di strega
e di essere eterna, ma si mostrava raramente ai comuni mortali.
Un brutto giorno però, attirata dal canto
delle massaie che lavavano i panni nelle acque dell'Oriasciöl (rio Mauleia), si mise a spiarle dai cespugli della riva
e, scorto un neonato lasciato dalla madre a riposare sotto un albero, lo rapì,
affascinata dal suo candore, lasciando al suo posto il prorio, brutto e peloso
come lei.
La donna sconsolata, dopo vane e affannose
ricerche, si portò a casa il bimbo scambiato, ma non riusciva a trovare il
coraggio di allattare quella specie di mostriciattolo e questi piangeva a
dirotto e tanto forte da farsi udire anche dalla propria madre che intanto,
nell'antro nacosto, tentava a sua volta invano di consolare il piccolo rapito.
Il giorno seguente la madre casalese si vide
comparire davanti la Cusc che,
porgendole il figlioletto, pronunciò con voce gutturale le uniche parole che
mai le siano state udite: "Tëgn,
tëgn ël teu biänchin, damm, damm ël me plosìn"* E ripresasi il proprio
piccolo si dileguò veloce tra gli alberi.
* Tienti il tuo piccolo candido e
ridammi il mio peloso.
FANTASMI E NO - ËL NODAR CHË 'L ROLAVÄ IJ BÒCC
Il notaio che faceva
rotolare i sassi
Viveva un tempo in Casale un notaio di non
specchiata onestà che un giorno si recò a Mergozzo per concludere la vendita di
alcuni terreni di proprietà comunale. A
quel tempo non esisteva ancora il ponte sul Toce, a Gravellona (fu costruito
nel 1888) e il fiume veniva attraversato su barche o chiatte; il nostro notaio
mentre veniva traghettato per il ritorno, lascio destramente scivolare in acqua
la sua finanziera. "Lä me märsinä!.. Ij sòd dël
cumun!"* gridava con ben
simulata disperazione, ma il ricavato della vendita era al sicuro nel taschino
del panciotto. Invano i barcaioli si tuffarono nell'acqua fredda: la giacca,
sapientemente appesantita, si era rapidamente inabissata ed era stata
trascinata via dalla corrente.
Gli amministratori comunali dovettero darsi
pace per la disgrazia e il furbo notaio si tenne i soldi, ma non ritenendo
prudente investirli immediatamente, pensò bene di murarli in casa propria,
nascosti dentro una dojä**. Pare che
non riuscisse mai a utilizzare quel denaro e che il contenitore sia stato
ritrovato intatto quando la casa venne demolita, molti anni dopo. Ma la
giustizia divina non dimentica e la punizione fu terribile: lo spirito del
notaio venne condannato a vagare senza pace tra i gerbidi del Pianello dove
manifestava la sua furia facendo rotolare grossi sassi addosso ai passanti.
I buoni casalesi, spaventati dal fracasso e
dal pericolo imminente, ricorsero prima al parroco e poi ai vescovo e questi,
ponderata la situazione, consegnò al sacrestano una lettera sigillata con
l'ordine di portarla nella zona frequentata dallo spettro, deporla a terra e
tornare velocemente sui propri passi, senza mai voltarsi, qualunque cosa
sentisse. Il pover'uomo quasi morì di spavento nel compiere la sua missione;
per qualche istante il fracasso prodotto dai massi che franavano fu terribile,
poi tornò la pace. Il fantasma era stato "confinato" e da quel giorno
non riapparve mai più.
*
La mia giacca!... Il denaro del comune!
** Recipiente in coccio, con coperchio, utilizzato per conservare gli
alimenti, specie il salame d'oca (sälämin dla dojä) sotto grasso
I FOLIT
I folletti
Il mezz*
del latte si è rovesciato inopinatamente? Il camino tira male e vi riempie la
casa di fumo? Le vacche si agitano e rumoreggiano nella stalla in piena notte?
Non è sfortuna, o cattiva manutenzione o effetto del freddo, no: sono i
folletti, quegli esserini eterei, di solito invisibli, dispettosissimi, che si
divertono a tormentare gli umani con i loro tiri mancini. Nascondono gli
oggetti di casa, mungono le capre e ne gettano il latte nel pozzo, sparpagliano
il mucchio del letame davanti all'ingresso di casa, fanno fuggire i maiali
dallo stabbio...
Ma a volte, nella loro imprevedibilità,
sanno anche rendersi utili: alla Maria hanno spazzato e rassettato tutta la
cucina, alla Gina hanno vangato l'orto in una sola notte, alla Clara hanno
fatto ritrovare tre marenghi d'oro che credeva d'aver perduto. Si dice che il
Nino sia riuscito a catturarne uno, nel prato dell'alpe, una mattina di
ottobre, e che questi, a mo' di riscatto, gli abbia indicato dove trovare un'antico
tesoro sepolto.
Mah!...
* Boccale metallico della
capienza di mezzo litro usato per dosare il latte.
LÄ VAL D'IJ CINCH
La valle dei Cinque
Erano in cinque, cinque fratelli, cinque
omoni grandi, grossi e spavaldi. Boscaioli, cacciatori, forse contrabbandieri
di sale, occasionalmente, con il vicino principato, per arrotondare il magro
bilancio.
Sguardo franco, passo gagliardo, ogni
sentiero del Cerano era come casa loro; tutti li conoscevano e li rispettavano
perchè, nonostante quel loro aspetto brigantesco, erano miti e gentili con
chiunque.
Ma un brutto giorno l'esercito imperiale
ritenne di non potersi più privare dei loro servigi e li chiamò alle armi,
tutti in una volta. Loro però non se la sentirono di andare a combattere contro
i francesi, non per pusillanimità, ma per non lasciare sola la vecchia madre
che non avrebbe saputo come campare. Non si presentarono al reclutamento e
quando, qualche giorno più tardi, la pattuglia dei gendarmi venne da Omegna per
arrestarli, si diedero alla macchia.
Li inseguirono naturalmente, per prati e
orti e boschi, ma i cinque bravi si andarono a rifugiare nella profonda forra
del rio Gaggiolo, a monte di Arzo, e appostati alla sua imboccatura attesero i
croati con gli schioppi spianati, bloccandoli col loro tiro preciso. A lungo in
paese si udirono rimbombare le fucilate, via via sempre più rade, ma nessuno fu
più rivisto comparire.
Pare che siano ancora la, a difendere il
burrone che prese il loro nome, la Valle dei Cinque. Se vi aggirate da quelle
parti al crepuscolo, con l'animo disposto a credere anche le cose più
improbabili, forse riuscirete a scorgere una vampata all'interno dell'orrido e
se saprete guardare nella giusta direzione individuerete forse anche il
pennacchio del kaporalmeister che, da dietro un masso, ancora fa la posta ai
suoi disertori.
Nota: la leggenda è ricordata
solo nei suoi tratti essenziali e con sfumature diverse secondo chi la
riferisce. La versione riportata, pur nel rispetto della tradizione, è stata ampiamente
romanzata al fine di renderla più leggibile; in particolare è del tutto
arbitraria l'ambientazione nel periodo in cui Casale, con tutti i feudi
borromei, faceva parte del ducato di Milano e quindi dell'impero austriaco
(prima metà del XVIII secolo) e il principato sabaudo si estendeva sino alla
Valsesia e all'alta Val Strona.
Lä stòriä dël Burgatìn
Filmato, montaggio e disegni a cura di Gianni Boriolo
realizzato presso la Biblioteca Comunale di Casale Corte Cerro durante l'inverno del 2015
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