Dite un po’: vi è mai capitata, passeggiando
nei boschi delle nostre montagne, la strana sensazione di non essere soli? Di
occhi discreti che vi stiano osservando, di voci che sussurrino messaggi subliminali,
che vi chiamino con fare suadente? Avete mai avuto un sussulto improvviso,
l’istinto di voltarvi repentinamente per cogliere una presenza vaga, ma pure
così insistente da risultare quasi fisica? Si, vero?
Beh, tranquilli. Non state avendo delle
allucinazioni. Sono loro, i Piccoli Signori, il piccolo popolo delle leggende,
dei miti, delle tradizioni ancestrali.
Nel secondo millennio dell'era precristiana
un gruppo di popolazioni stanziate nell'Europa centrale fu interessato da un
forte sviluppo demografico e prese ad espandere la sua zona d'insediamento
verso sud e verso ovest, andando progressivamente a mischiarsi e sovrapporsi ai
precedenti abitanti, ai quali finirono per imporre la loro cultura e, in buona
parte, la loro lingua. Non è chiaro come definissero sé stessi, ma greci e
romani, secoli più tardi, li chiamarono rispettivamente keltoi e galli. E Gallia, quidi, fu il nome dei loro territori. In
Italia la loro zona di espansione, la Gallia Cisalpina, arrivò a coprire tutti
i territori alpini, il piano padano e l‘appennino settentrionale e umbro
marchigiano. Famosi sono rimasti i clan dei Boi e, soprattutto, dei Senoni –
che avevano il loro centro più importante in Saena Gallica, l’attuale Senigallia – e che nel 390 avanti Cristo conquistarono
e saccheggiarono Roma sotto la guida di Brenno. Ai nostri tempi si studiava
quell’episodio nel corso di storia, alle scuole elementari, e tutti conoscevamo
la sprezzante risposta del console Furio Camillo ai capi celti, quando gettando
la spada sulla bilancia con cui si stava pesando l’oro richiesto per il
riscatto dei prigionieri proclamò: “Con il ferro e non con l’oro si riscatta
l’onore di Roma!”
Furono queste popolazioni eterogenee, i
celti, a lasciare nella nostra cultura – e nel nostro DNA – quelle radici che
ancora oggi, a più di duemila anni dalla loro sottomissione a Roma e dal loro
assorbimento tra le popolazioni dell’impero, ancora spesso affiorano
prepotentemente, seppure in modo inconscio.
Ad esempio ricordo un’anziana signora che,
esasperata dalle mie intemperanze infantili, ogni tanto mi sgridava con un
sonoro “Täranìs at mändä on lòsän!”
(Taranìs ti mandi un fulmine) senza stare a meditare che proprio lei, cattolica
tradizionalista, stava invocando in Taranìs la divinità del tuono dei nostri
lontani antenati.
In Irlanda, dove le tradizioni celtiche sono
rimaste più a lungo intatte, una leggenda racconta di come gli antichi dei che
un tempo popolavano quei territori fossero un giorno stati sconfitti e
sottomessi da nuove popolazioni provenienti da occidente – il mito della
perduta Atlantide, forse – ma non accettando questo nuovo status si siano
ritirati a vivere nelle foreste e nel sottosuolo, riducendo le proprie
dimensioni fisiche e sviluppando le arti magiche per meglio sfuggire ai
dominatori. Si sarebbe così sviluppata quelle fitta schiera di creature
fantastiche – fate, folletti, goblin, troll, elfi e quant’altro – nota come “il
piccolo popolo”.
Tra i territori alpini quelli delle valli del
Toce e del Ticino conservano le più importanti tracce di insediamenti celtici,
come testimoniato dai siti archeologici di Golasecca, Ornavasso e Gravellona
Toce. Erano le zone dei clan dei Lepontes
– il popolo della lepre – e degli Agones
e anche da noi possiamo trovare tacce di quei miti ancestrali. Il territorio è
disseminato di massi erratici coperti di coppelle e altri “segni” rituali, in
ogni paese si ricordano riti per l’invocazione della pioggia – o per fermare le
precipitazioni troppo abbondanti – o per propiziare la fertilità dei campi,
degli animali e delle donne. Usanze che nel corso dei secoli hanno assunto una
parvenza di liturgia cattolica, ma basta grattarne un poco la superfice perché
salti fuori la base pagana, cioè legata all’antica religione precristiana.
E allo stesso modo dai racconti degli anziani
salta fuori un universo popolato da un gran numero di creature misteriose, a
volte benefiche, in altri casi demoniache, che vivrebbero nell’ombra, ma
proprio al nostro fianco. E si racconta quindi della cusc, la donna selvatica con il corpo ricoperto di peli, che un
giorno rapì un neonato lasciato incustodito dalla madre sostituendolo nella
culla con il suo piccolo dall’aspetto mostruoso. L’umana, chiaramente
orripilata dall’aspetto della piccola creatura, si rifiutava di accudirla e di
nutrirla e questa, con il suo pianto disperato, richiamò l’attenzione della sua
vera madre che, mossa a pietà, riportò il bimbo rapito e, prendendo il suo,
pronunciò le sue uniche parole: “Tëgn
scià ‘l teu biänchìn e damm indré ‘l me plosìn” (riprenditi il tuo
bianchino e restituiscimi il mio pelosino). Se da Casale Corte Cerro risalite
il sentiero che si addentra nella forra del rio Urcia noterete un pertugio nel
fianco del monte; nella toponomastica locale è ël forn dlä cusc (l’antro della cusc).
Ël
fòl era invece un essere di
grande statura che si aggirava di notte per i boschi della valle Strona;
appariva all’improvviso a fianco dei viandanti solitari e cercava di
accompagnarli nel loro cammino. Molti fuggivano spaventati, inseguiti dalla
agghiacciante risata dell’essere fatato, tanto da rischiare spesso di infortunarsi
cadendo dai dirupi. Ma ai pochi che ne accettavano la presenza il fòl si mostrava invece amichevole.
Chiacchierava in modo amabile, si rivelava assetato di pettegolezzi, ma anche
prodigo di ottimi consigli riguardo alle tecniche di allevamento e di coltivazione.
I folletti erano un esercito di piccole
creature allegre, vivaci, sagge e dispettose. Si dice che fossero i bambini
morti prima di poter essere battezzati e pertanto esclusi dall’accesso ai regni
ultraterreni – paradiso, purgatorio e inferno – e condannati a vagare per
sempre sulla terra, andando a tormentare coloro i quali non erano stati in
grado di garantire loro la pace eterna. Entravano nelle case e nascondevano gli
oggetti, rovesciavano i secchi del latte appena munto, disfacevano le calze che
le ragazze avevano quasi terminato di lavorare a maglia. Nelle stalle
liberavano gli animali dalle loro poste facendoli fuggire per le campagne. A
qualcuno facevano invece del bene. Si racconta che a un povero mendicante
trovato addormentato in un fosso abbiano rivelato un grande segreto: se fosse
riuscito a seguire il percorso di un arcobaleno prima che si dissolvesse,
scavando nel punto esatto in cui l’arco colorato usciva dal terreno avrebbe
trovato un grande tesoro. Fantasie? Fatto sta che il mendicante nessuno l’avrebbe
più rivisto, ma che in una città lontana sia improvvisamente comparso un ricco
e sconosciuto signore che, dicono, gli somigliasse un poco…
L’uomo selvatico aveva un aspetto poco
rassicurante, con tutti quei peli addosso e i piedi voltati all’indietro –
metodo certo, d’altronde per riconoscere gli esseri fatati. Ma in fondo era un
tipo innocuo e gli alpigiani, conoscendolo lo accoglievano nelle stalle quando
si presentava per la veglia serale, gli passavano una scodella di zuppa o un
bicchiere di vino e lui in cambio raccontava antiche storie e dava consigli e
insegnamenti. In particolare insegnò ai montanari come sfruttare il siero
residuo dalla lavorazione dei formaggi, ricuocendolo ad alta temperatura e
facendolo nuovamente cagliare con l’aggiunta di aceto per ottenerne così un
terzo prodotto, dopo burro e formaggio duro, che chiamò ricotta; promise anzi
che in una successiva occasione avrebbe svelato una ulteriore possibilità di
lavorazione, ma poi ci si mise di mezzo il destino. Destino maligno, nelle
vesti di due ragazzotte sventate che presero a dileggiare l’òm sëlvagh per i suoi strani piedi sino a che lui,
particolarmente permaloso, se ne andò offeso, portando con sé l’ultimo prezioso
segreto. E da allora non si fece più vedere.
Un ultimo, doveroso cenno alla zoologia
fantastica, nel cui capitolo ci piace citare la fassärolä, curioso essere per metà cane e per l’altra maialino, che
si aggirerebbe di notte portando in bocca un fascio di sterpi; era considerato
particolarmente pericoloso per le donne gravide in quanto, se fosse riuscito a
passare tra le loro gambe divaricate avrebbe provocato la perdita del
nascituro. Una creatura simile - la vàina,
un neonato strettamente fasciato dai piedi sino al collo – infestava i monti
dell’Ossola rotolando continuamente per i ripidi versanti, emettendo un vagito
straziante e provocando i medesimi perniciosi effetti sulle fure madri.
Molti anche i luoghi infestati dall’asspär, o brasalèsch, con corpo di serpente, ali da pippistrello e testa di
gatto. Un vero e proprio drago “tascabile” che, a fissarlo direttamente negli
occhi, pietrifica l’incauto osservatore. E infine il gat mainón, il gatto mammone, felino di enormi dimensioni a volte
ricordato come ël gat dij orècc d’òss,
il gatto dotato di orecchie ossee – par di vederlo, con un bel paio di corna
demoniache – che terrorizzava i bambini capricciosi.
A questo punto mi par di udire la vostra
domanda ironica: “Barba, ma cosa ti sei fumato?..”
Si, lo so, sono o forse semplicemente
sembrano le fantasticherie di un vecchio allucinato e credulone. Eppure… eppure
se vi aggiraste per i boschi intorno a Crebbia in certe sere particolari e se
vi capitasse di trovarvi nel posto giusto, al momento giusto e con la luce
giusta… Ecco, potrebbe succedere anche a voi di trovarvelo di fronte, con il
suo ghigno sarcastico ed enigmatico: è il pagadebät,
Pan delle foreste, lo spirito che veniva indicato dai miseri e dagli
indifesi a protezione dai prepotenti. Non ci credete? Provate!..
Alla prossima.
Massimo M. Bonini – barbä
Bonìn
Nota linguistica.
I testi dialettali sono
trascritti secondo le regole fonetiche fissate dalla Consulta Regionale per la
Lingua Piemontese e adattate alle varianti del Verbano Cusio Ossola e Alto
Novarese dall’associazione Compagnia dij Pastor di Omegna. Per maggiori
informazioni in merito a questi aspetti è possibile consultare il sito internet
compagniadijpastor.blogspot.it
Novembre 2017
per Alpe Nostra, notiziario
del C.A.I. sezione di Omegna
nella fotografia: il Pagadebät di Crebbia
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