Säntä Luzìä l’è ‘l di pussè curt chë’gh siä. Sän Tomà né’l va né‘l sta. Për Nädàl ël pass d’on gal, Befänìä ël pass d’onä striä, sänt'Antòni n'orä bonä. Ne conoscete altri?
Sono i proverbi con cui i nostri vecchi ricordavano il sopraggiungere del solstizio d’inverno, dei giorni brevi in cui aurora e crepuscolo sono così vicini tra loro da rendere del tutto incerta la presenza della luce, da far temere, per atavica memoria, che il sole - così basso sull’orizzonte, così debole da non riuscire a sciogliere il gelo – potesse essere inghiottito dalle tenebre e non tornare mai più a fecondare la terra.
Il 13 dicembre, santa Lucia, nell’antico calendario, il 21, san Tommaso apostolo, in quello successivo alla riforma gregoriana segnano l’ingresso del sole nella ‘casa’ del capricorno, il momento di minor durata della luce diurna, il solstizio, appunto.
Quale gioia allora poter constatare, solo pochi giorni dopo, che l’astro principale tornava a prendere vigore e i giorni ad allungarsi. Non c‘è da stupirsi che gli antichi popoli celebrassero proprio allora la festa del sole invitto, Yule per i popoli nordici, subito dopo quella di Saturno o di Ecate, dei dell’oscurità. Dodici giorni duravano i festeggiamenti; dodici giorni di allegria, di riposo, di sbronze e scorpacciate, riscaldati dal fuoco perenne del tronco sacro, lo jól, la cui fiamma non doveva mai spegnersi, pena immani disgrazie che si sarebbero abbattute sulla casa in cui ciò fosse avvenuto. Le notti, o meglio, le sere, erano i momenti sacri, momenti in cui gli spiriti, alternativamente del bene e del male, si aggiravano sulla terra e andavano di volta in volta ringraziati o esorcizzati con opportune cerimonie.
C’è da stupirsi, allora, se la nascente Chiesa cristiana andò a collocare proprio in quel periodo due delle sue feste più importanti? Dodici giorni, dal Natale del Cristo, luce del mondo, alla sua prima manifestazione, la Pasquä Béfänìä. Dodici: numero sacro e magico per eccellenza: dodici come gli Apostoli del Cristo, come i mesi dell’anno, come le tribù d’Israele…
Buone Feste a tutti.
barbä Bunìn dlä Cort Cèrä
Sono i proverbi con cui i nostri vecchi ricordavano il sopraggiungere del solstizio d’inverno, dei giorni brevi in cui aurora e crepuscolo sono così vicini tra loro da rendere del tutto incerta la presenza della luce, da far temere, per atavica memoria, che il sole - così basso sull’orizzonte, così debole da non riuscire a sciogliere il gelo – potesse essere inghiottito dalle tenebre e non tornare mai più a fecondare la terra.
Il 13 dicembre, santa Lucia, nell’antico calendario, il 21, san Tommaso apostolo, in quello successivo alla riforma gregoriana segnano l’ingresso del sole nella ‘casa’ del capricorno, il momento di minor durata della luce diurna, il solstizio, appunto.
Quale gioia allora poter constatare, solo pochi giorni dopo, che l’astro principale tornava a prendere vigore e i giorni ad allungarsi. Non c‘è da stupirsi che gli antichi popoli celebrassero proprio allora la festa del sole invitto, Yule per i popoli nordici, subito dopo quella di Saturno o di Ecate, dei dell’oscurità. Dodici giorni duravano i festeggiamenti; dodici giorni di allegria, di riposo, di sbronze e scorpacciate, riscaldati dal fuoco perenne del tronco sacro, lo jól, la cui fiamma non doveva mai spegnersi, pena immani disgrazie che si sarebbero abbattute sulla casa in cui ciò fosse avvenuto. Le notti, o meglio, le sere, erano i momenti sacri, momenti in cui gli spiriti, alternativamente del bene e del male, si aggiravano sulla terra e andavano di volta in volta ringraziati o esorcizzati con opportune cerimonie.
C’è da stupirsi, allora, se la nascente Chiesa cristiana andò a collocare proprio in quel periodo due delle sue feste più importanti? Dodici giorni, dal Natale del Cristo, luce del mondo, alla sua prima manifestazione, la Pasquä Béfänìä. Dodici: numero sacro e magico per eccellenza: dodici come gli Apostoli del Cristo, come i mesi dell’anno, come le tribù d’Israele…
Buone Feste a tutti.
barbä Bunìn dlä Cort Cèrä
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