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giovedì 26 maggio 2011

Bricicche di folklore

Nel post di ieri ricordavo le presunte (o comprovate?) proprietà dell'antico crocefisso custodito nella chiesa di Ramate in merito alla 'lotta alla siccità'. Credevo di aver già pubblicato in questo blog l'articolo della maestra Cesare, che per prima ne raccontava la storia, ma non riesco a ritrovarlo. Dovrò decidermi a mettere un poco d'ordine...

Per intanto, rieccolo.

barbä Bonìn

BRICICCHE DI FOLKLORE
di Natalia Rosa Cesare
pubblicato in Bollettino Storico della Provincia di Novara
XXVII (n. 3 – 1933) pag. 282 - 293

INDICE
pag. 284 Il rospo e la merla (favola)
285 Il lupo e la volpe (fiaba)
286 Il Maggio
289 I funerali (sale e castagne secche)
290 Le nozze (castagne e nocciole ai bambini)
290 Gli abiti
291 La cucina (arredamento)
292 Le processioni
293 Il crocefisso di Ramate


Nota N.R. Cesare fu insegnante alle scuole elementari di Casale Corte Cerro negli anni ’30 del XX secolo.


Notammo già altra volta che si fa sempre più difficile ritrovare notizie e aspetti (lì particolari usanze o di costumi, persistenza di tradizioni nei borghi e nei paesi, perchè non v'è più solitudine che consenta originalità pittoresca; anzi è dovunque una tendenza frettolosa a raggiungere quel tanto di uniformità che agli spiriti semplici può sembrare politura di apparenze e di maniere, e quasi elevazione.
Nei Comuni della Bassa Ossola ad esempio, dove vent'anni or sono la Chiesa offriva la domenica ai fedeli distratti appena lo spettacolo di qualche raro cappellino, ora si nota la più vivace varietà di copricapi di paglia, di feltro, di velluto, di seta; e si contano sulle dita i bei fazzoletti di lana a fiori che dalla testa scendono fino alla vita. Così, le gonne arricciate sotto i corpetti attillatissimi o i boleri aperti sulle camiciole ricamate appaiono appena come eccezione al mercato di Omegna indosso a poche donne di Strona, di Sambughetto o di Campello Monti. Ma quelle stesse portano abitualmente gli stivaletti di cuoio, piuttosto elle i grossi calzari di lana chiamati pilugn nei dialetti della valle. In altro campo la scuola e il giornale, pur non riuscendo a dare ai più una vera istruzione, attenuano sempre più i più i particolari caratteri del linguaggio, e disperdono i ricordi di letteratura folcklorica. Nè vogliamo dimenticare le razzie che, prima della guerra e durante, antiquarii e rivenditori fecero dei piatti di peltro, delle coperte di grosso filaticcio di seta, delle cassapanche, delle madie, delle maioliche a ingenui motivi ornamentali.
Offriremo dunque qui, e di necessità disordinatamente, il poco che ci fu possibile di spigolare negli ozi estivi, labili più che il rivo pascoliano.

Casale Corte Cerro è un bel paese che fino al 1913 fece Comune con Gravellona Toce; poi in quell'anno ne fu diviso, non senza esultanza dei Gravellonesi ai quali pareva una specie di diminuzione essere amministrati dai mutugn Pecoroni, così sono chiamati per la loro bontà i Casalesi, come altri di Comuni contermini sono detti Cani, Lupi, etc., rivivendo in tali soprannomi i languidi ricordi di lotte remote ormai nel tempo.
Dalle pendici del Monte Cerano si stende fino alla strada provinciale, diviso in ben quattordici frazioni, delle quali le più pittoresche sono. come è naturale, le più elevate, Montebuglio, Arzo, Caffaronio, Riciano. Molti rivi o riali, molti castagneti e, ad ogni svolto di strada, la vista del Lago d'Orta o del bellissimo Golfo di Pallanza o dei picchi detti Corni di Nibbio. La massa del Monte Orfano che da secoli fornisce graniti apprezzatissimi, impedisce la visione del Lago di Mergozzo.
Se interrogate qualcuno dei vecchi, vi parla di una Regina Cerro la quale teneva la sua Corte dove ora sono gli avanzi di un'antica torre detta di San Maurizio presso il cimitero di Gravellona. Di questa Regina che avrebbe dato il nome al paese, secondo la leggenda, nessuno sa dire nulla, nè in bene, né in male, neppure quel tanto di diavoleria o di santità che dovrebbe entrare in ogni racconto fantastico. Ma quel nome di Corte (curtis) ci spiega abbastanza l'origine; se pensiamo poi che il monte si chiama Cerano, che parecchie famiglie portano il cognome di Ceroni e che sulle alture gli alberi centenari agitano al vento le chiome opulente, non duriamo fatica a persuaderci dell'aggiunta. Infatti, il gagliardetto della Sezione Casalese della U.O.E.I. (Unione Operaia Escursionisti Italiani) fondata anni or sono dal benemerito Dott. Nino Dosi, portava come emblema un cerro, emblema che si ritrova anche in vecchi documenti.
Tradizioni di origine medioevale, dove pure i Conti di Biandrate signoreggiarono, e più tardi, i Visconti, non è possibile rintracciare, e neppure, racconti che abbiano particolare sapore. Abbiamo raccolto, dai ricordi d'una nonna, la favola del rospo e della merla e quella della volpe e del lupo che tenteremo di esporre nella nativa semplicità.
Venuta la primavera, la merla si fa beffe del rospo che è tardo e brutto e deve contentarsi di strisciare nei terreni umidi. Anche i più grossi e insipidi hanno il loro amor proprio: il rospo si offende e sfida la merla a una gara di velocità. Si veda, nel mattino seguente, quale dei due raggiungerà prima su un breve ripiano erboso, la casèra [1] all'alpe bella. La merla fischietta come se ridesse, poi sicura del fatto suo, dorme tranquilla. Ma il rospo astuto si leva nel cuor della notte: zitto zitto, un passo dietro l'altro (il tempo non conta niente per lui che vive così a lungo) raggiunge prima dell'alba la casèra, vi entra e si nasconde presso un gran catino di siero. Col sole la merla s’alza a volo; fischietta, gode dell’azzurro, guarda se può vedere quel brutto rospo che s'affanna - qua qua qua - tra le erbe o lungo i sentieri. Sul tetto della casèra canta in tono di scherno:
“Ciciricì
a l’alba del bel dì
son chi anca mi.”
E dall'interno una voce rauca, nella quale suona tuttavia una nota di vittoria, risponde:
“E mi a quagg, a quagg”
ossia rimesto il siero coagulato per farne il formaggio. Ma il gioco di di parole sta nel verbo dialettale che sembra riprodurre il verso del rospo dal fondo dei fossati o degli orti nelle notti estive.

La volpe è tanto maliziosa che riesce ad ingannare il lupo che è pure gagliardo e feroce. — Una volta lo trasse per una fenditura del muro (il lupo per lungo digiuno era magro che le costole bucavano la pelle) nella casa d'un contadino dove era lardo, carne, polli. Più lesta di lui trovò quel che le conveniva, calmò la fame, e poi, fuori per il rotto. Il bestione ingordo, al quale non pareva vero d'aver trovato il Paradiso, mangia che ti mangio, s'ingrossò del doppio e non badò a far rumore. Si sveglia il contadino, piglia un bastone che pareva quel d’un gigante, e gliene dà quante può, fin che quello, bene o male, riesce a cavarsela; ma sanguinante e poppo. Oh, quella maledetta volpe, dove s'è cacciata? Perchè l’ha tradito, lasciandolo negli impicci? E andando, bestemmia e soffia per le percosse e per la rabbia. A un tratto, sente una voce gemebonda “Oimè, oimè! che io sono tutta ferita; per carità, fratello, portami in salvo”. A un raggio di luna, il lupo ravvisa la volpe, col pelo arruffato, macchiato di sangue. “Comare, le avete prese anche voi?” “Eccome! Non vedi quanto sangue? Prendimi sulle spalle!” E il lupo compassionevole se la carica indosso. Ma la tristaccia s’era cacciata tra i rami d’un corniolo carico di frutti maturi, e quel rosso veniva di lì. Andando sul groppone dei lupo che anfanava, brontolava tra i denti:
“dandarandan:
al malavi ‘l porta ‘l san”.
“Che dite, comare?” – “Sto tanto mate, lupo: beato te che puoi andare con le tue gambe”. E così si fece rimettere sino alla sua tana. Lì vicino c'era un pozzo, e nel nero dell’acqua la luna si rifletteva chiara, tonda che era una maraviglia. “Che sarà mai quella cosa laggiù?” chiese il lupo ignorante “Una forma di formaggio. Non senti l'odore che sale fin qui? Se ti metti nella secchia, puoi discendere a prenderla; poi io ti aiuterò a risalire”. Al lupo non parve vero; strizzandosi un poco, entrò nella secchia, e poum! ruzzolò fino in fondo. Ebbe un bel gridare! la volpe si lisciò il pelo e se andò tranquilla.
Niente di nuovo e di originale; per citare due nomi, S. Bernardino da Siena, nella vivace semplicità delle sue prediche, e l'Ariosto, in una delle sue satire, han narrato qualche cosa di simile: e l'uno e l'altro possono vantare ascendenti e discendenti a iosa: ma è notevole come questo materiale favolistico viva tenacemente tra il popolo.
Canti di colore locale, zero: i vecchi non cantano più, e anche quando qualche bicchiere in soprannumero li fa dimentichi dell'età, ritornano ai cori dei coscritti o della caserma che sono su per giù, quelli di tutto il Piemonte; come i reduci, alpini senza eccezione, tornano alla Piuma Nera e al Ponte di Bassano; i giovani, purtroppo, cantano Marilù, la Rumba e simili. Ma sopravvive un'usanza tipica e fondamentalmente gentile, anche se l'espressione non è sempre correttissima: è quella della Canta di Maggio, ossia di un calendimaggio rusticano.
In una sera. all'inizio di quel mese, si raccoglie il gruppo dei sonatori: chitarra, violino, mandolino, fisarmonica, e quello dei cantori. Non mancano belle voci intonate e senso della musica, come si avverte anche alle funzioni religiose: è uno dei paesi in cui le donne stonano e berciano meno. Si comincia dal centro, che sarebbe come la capitale, per passare grado grado alle frazioni, nel quale itinerario trascorre gran parte della notte. Più che salutare donne e cantare d'amore, si fa per così dire, la serenata ai maggiorenti, a quelli che sono disposti a offrire vino, salumi, ova, anche pandolce.
Si inizia con un motivo lento e carezzevole che si intona ai languori del Maggio galeotto, e ripete da anni innumerevoli le stesse parole:
Maggio ridente,
fior d'ogni 'gente,
fior dell'estate,
le donne innamorate (sic).
Ma ben presto si precisa in accenni dialettali e locali:
Suma vignù dal Sass Lanscin [2]
par fagh nnur al sciur Carlin,
oppure, secondo il luogo e la persona
par saludà la sciura Clarin.
Suora vegnù dal Cassinón
par riverì sti bei padron.
Seguono le lodi e l'espressione dell'attesa:
Gira stort e gira dritt,
cressa la sèt e l'appetit
brava gent, vigni fò pena (un poco)
dèn da beva a la serena.
Il poeta (non ne manca mai uno) come trova il ringraziamento per chi apre la porta a dare il fiasco o cala dalle finestre il salsicciotto promettente, improvvisa couplets arditi e salaci contro i ributtanti o gli avari.
Chiediamo scusa di offrirne qualcuno:
Quanti sass gh'è 'n ta stu mur,
tanti ciot in tal to …
quanti prei gh'è par tera,
tanti gugi in in tla …
Si racconta che una volta, alla casa di un negoziante, padre di una figlia non brutta e prosperosa, uomo ricco e restio, non per avarizia, ma probabilmente per ragioni di dissenso, che si ostinava a tener porte e finestre chiuse e a non dar segno di vita, il poeta dopo aver enumerato le ghiotte cose che avrebbe potuto o dovuto regalare, aggiungesse l'espressione d'un desiderio né modesto, né castigato.
E se propri vuri dan nuta {nulla)
mandè fò la mata biuta (nuda).
Doveva essere sera già inoltrata, in regime non secco; registriamo però, come prova della bontà naturale dei mutugn, che l'audace conplet suscitasse nulla più che risate e malumori non pertinaci.
Raccolta la provvista, ai cantori si uniscono i compagni, gli ammiratori, il cui numero è andato crescendo; sulla piazza si fa coro, indi segue la scorpacciata o alla casa d'uno dei tanti o all’osteria, e si attende il sorgere dell'alba, salutato dagli sbadigli.
Un curioso racconto abbiamo inteso a Montebuglio, ma benché venisse da una persona semplice, mi par che tradisca una certa origine letteraria.
Nella parte più alta della frazione, poco lontano da un torrente sempre ricco di acque — e dicono anche di trote — è un mulino, cioè una torneria, che l'industria di tornire il legno è sparsa per tutta la Valle Strona e ve la portò, o ve ]a risuscitò, circa una ottantina d'anni fa Giovanni Job, suddito svizzero, ma che amò il paese in cui s'era stabilito e fu un intelligente, assiduo e benemerito lavoratore. Poco più su di quel mulino si vede adagiato in pendio un macigno che si direbbe un masso erratico. La tradizione vuole che un tempo vi stesse di profilo, posato su uno spigolo, sagomando stranamente l'orizzonte; ma un bel mattino lo si trovò all'improvviso nella posizione attuale, e magicamente portava scritto:
Bene fece a rivoltarmi,
chè la costa mi doleva.
Il racconto viene testualmente, come dicevamo, da una montanara vecchia e ignorante; tuttavia ci sembra sospetto.

Superstizioni. sopravvivono certo, e qualche medicastro, o meglio qualche donna anziana, fa concorrenza al dottore nella conoscenza di rimedi empirici e fantastici; qualche larvato timore di stregoneria o di malocchio si avverte di fronte a certe malattie, mentre invece è difficile persuadere ai riguardi necessari specialmente nei morbi dell'infanzia — toste ferina, morbillo. scarlattina — o nei più dolorosi casi dì tubercolosi, chè. non ostante la salubrità dell'aria, la terribile nemica fa le sue vittime. In complesso però, neppure la morte è circondata dai terrori lugubri e dalle immaginazioni ché sopravvivono in altri luoghi; e forse vi contribuisce quel ridente camposanto così presso alla strada, donde l'occhio spazia fino allo sbocco del Toce, e dove sembra così dolce il riposo. Qualche anno fa corse in sordina la storia dell'apparizione di un morto recente, senza testa, come un condannato; né fu possibile rintracciarne l'origine, tanto più che si trattava d'un bravo uomo assestato e tranquillo.
Nella casa del morto sfilano le visite numerose, e la sera si accoglie un'adunata grande per il rosario; concorrono dalle frazioni anche più remote, sicché talvolta, non bastando le camere e la cucina, il cortile e le adiacenze ne sono occupati, e il lungo mormorio delle preghiere giunge lontano con un senso di tristezza grave. Non v’è morto così povero e derelitto che vada via da solo: Alesandrina Ravizza, se rivivesse, non troverebbe quel feretro desolato e anonimo che accompagnò fino a Musocco, prendendosi la polmonite che la condusse alla tomba; il corteo funebre è anzi, assai lungo, e alla funzione religiosa, tutta a chiesa nereggia. Un tempo si usava distribuire sale ai poveri; oggi vi si sostituisce il pane, o, nelle famiglie benestanti, forme di carità più opportune e proficue; ma in complesso, è in quasi tutti il pensiero che si giovi al morto con opere di bene.
Per la commemorazione dei defunti; i vari piedi o rami della famiglia si riuniscono nella casa madre alla recita del Rosario intonato per regola dagli anziani ;si mangiano poi le castagne lesse innaffiate da qualche bicchiere di vino.
Coricandosi, si lascia il ceppo acceso nel focolare, sulla tavola, un piatto di castagne per quelli che tornano senza farsi sentire.
Anche nella notte di Natale, generalmente si conserva un po' di fuoco per riscaldare il Bambino; ma se molti accorrono alla Messa di mezzanotte e suona lungo sulle strade il battere delle grosse scarpe pesanti, i giovani si divertono invece assai profanamente bevendo e cantando.
Le nozze sono festose e godereccie, anche quelle; (sia detto senza malignità) che sarebbe forse opportuno celebrare in guardingo raccoglimento. Molti sposi distribuiscono ancora i brott, ossia le castagne secche, a ramaioli, con abbondanza; altri, uscendo dalla chiesa, generalmente sul bel mezzodì, seguiti dal lungo codazzo dei parenti e degli amici, gettano a manciate confetti e nocciole ai monelli che schiamazzano e si cazzottano intorno.
Il banchetto è lauto e succolento, qualche volta accompagnato da un po' di musica e sempre chiuso da canti. La sposa non reca più alla casa maritale il cor­redo chiuso nel cofano di quercia; di questi cofani, vecchi, autentici, adorni di rozzi motivi, non crediamo di essere riusciti a vederne più di due, ché ora si preferiscono i cassettoni e gli armadi con lo specchio.
Non si fila in casa la tela; la canapa che una volta era largamente coltivata e forniva molta della biancheria da letto, da tavola e anche la personale, oggi malodora di sè soltanto qualche punto del paese. Per ritrovare indumenti tipici, bisogna rovistare nei cassoni delle nonne; allora riappare ancora qualche baracan, ossia una gonna di grossa lana, filata in casa e tessuta a Quarna, generalmente di colore blu con una balza verde che si scopriva, rimboccando l’abito propriamente detto e fissandone i lembi sul dorso; riappare il corset di lana nera a scollo tondo e a taglio tondo sui fianchi, con un parchissimo ricamo. Qualche massaia anziana porta ancora al collo la moleta, ossia un cordone di seta scorrente in un lucchetto d'oro liscio o a smalto nero e azzurro, una spilla a cornice vistosa di oro leggero o di filigrana.
Si conservano in più d'una casa gli spilloni d'argento; ma non bisogna che la fantasia corra alla raggera brianzola; si tratta di due spilloni assai modesti, di gambo breve e con la capocchia allungata a pera o meglio a susina, che servivano ad assicurare sui capelli lo scialle di lana o il fazzoletto di seta.
In abitazioni che hanno conservato per forza di cose l’antica rusticità, si vede ancora il focolare nel mezzo della cucina e l'apertura da cui deve uscire il fumo, e dà un senso di disagio, come d'una vita primordiale. Tutt'affatto diversa è invece l'impressione dei camini fondi, sulla cui cornice brillano i candelabri d'ottone, il mortaio, talvolta lucidi piatti di stagno; e sotto la cappa assai sporgente stanno le panche per i ritrovi invernali. Ne abbiamo veduto a Crusinallo uno, grande pressapoco come tutta una cucina dei nuoci appartamenti di città, il quale, non solo ha due sedili di legno ad alta spalliera che sembrano quelli di un coro, ma ancora un finestrino nella parete, donde si scorge la campagna.
Necessità di conoscere che cosa si agiti di fuori o non piuttosto raffinato piacere di vedere attraverso i piccoli vetri la nevicata incessante, godendo il beneficio dei ceppi odorosi ed ardenti?
Notiamo però che l'inverno ogni cucina ora si scalda con la tetra stufa che provvede anche ai bisogni del desinare e della cena; utile. economica e squallida, perchè non ha parola alcuna per una immaginazione emotiva.
Non è raro, nello spessore delle pareti, vedere uno sportello che chiude la nera bocca del forno; senonché, dove i padri cocevano il pane di segala o di biada che si conservava nella madia per tutta la settimana, i nipoti cuociono appena la torta di San Giorgio.
San Giorgio è il protettore del paese, ragione per cui, in mezzo a nomi romantici o men soliti, si trova ancora un numero considerevole di Zorz. Nella chiesa di recente restaurata, dietro l'altare, in una nicchia il bel guerriero a cavallo doma sotto la lancia il drago riluttante, ed è una immagine epica tra tante immagini di santità.
La festa si celebra la domenica successiva ai 24 di aprile; e non si differenzia dalle consimili sagre di infiniti paesi, nei riti religiosi, nei banchetti dei rivenditori, nella cuccagna, nella banda etc.; ma anche la più modesta delle famiglie si crederebbe degenere dalle buone costumanze se non apparecchiasse la torta, ossia uno sformato dolce di varii ingredienti. V'è quella che si consuma a desinare, e quella che si offre agli amici o a qualsiasi visitatore nel pomeriggio: non offrire o rifiutare sarebbe considerata grettezza e scortesia senza pari.
Processioni di grande solennità sono quelle del Venerdì Santo e dell'Assunzione. La prima esce nel tardo pomeriggio, sicchè quando rientra, è notte fatta, e la lunga fila dei ceri, tremolanti nell'oscurità presso le tonache della confraternita o i veli neri delle donne, la lenta salmodia in cui si fondono le voci più svariate, danno anche all'animo più disincantato un tremore di religiosità. L'Assunta si celebra nel fulgore dell'estate, e la processione ne acquista pompa nei paramenti, nei candelabri, nei vestiti, così come l'offerta è abbondante di cera, di vino, di polli, di frutti, di torte; perfino qualche agnelletto o qualche capretto vivo vi appare infioccato. All'incanto dei doni si accende la gara tra gli offerenti; i signori spingono i prezzi nell'interesse della fabbriceria; poi qualche volta si tacciono per non mortificare qualche modesto compaesano desideroso di ben figurare. Chi incanta, trova colorite espressioni di incitamento; tra la folla qualcuno risponde in rima, con motti e freddure non sempre note e stantie.
Per fine di bene o per fine di vanità, l'interesse è sempre vivo; e neppure gli anni rossi, non ostante la propaganda e lo scherno, diradarono il concorso.
Ad invocare la pioggia nella persistente siccità, si porta fuori il Crocifisso di Ramate, vecchio di almeno tre secoli, di ignoto artefice, che si regge orizzontalmente come se si reggesse un feretro, forse perchè essendo assai alto, per la strada in pendio che da Ramate conduce al centro, urterebbe negli alberi e nelle siepi.
L'oscuro artista che lo concepì e lo lavorò, doveva avere una inconscia anima meditativa e un chiuso ardore mistico. La figura è impressionante senza avere nulla di quel verismo atroce che è in certi crocifissi di campagna: il Cristo che piega il viso tra le lunghe chiome, ha nell'atteggiamento la coscienza di un destino ineluttabile, d'un sacrificio senza paragone, a cui le forze piegano. Vederselo dinanzi ritto, nel breve spazio tra un altare e la balaustrata, dà un senso di abisso, come se ogni aspetto ed ogni ragione di vita fossero per disparire; le donne più semplici lo guardano, pregando, con smarrimento.
Quei di Ramate ne sono gelosi e vedono malvolontieri che lo si trasporti in Parrocchia, sia pure per breve tempo.
Esposto sotto l'atrio della loro chiesetta, dicono, non tarda ad ascoltare le suppliche: nubi gonfie salgono dalle gole dell'Ossola, nubi grigie velano lo Zeda; il Montorfano si inette il cappello, Toce e Strona scompaiono nella nebbia che riempie la valle; e l'uragano si sferra.
Il male è che qualche volta cade anche la grandine.

N.R. CESARE



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[1] Casère, costruzioni parte di muratura e parte di legno, dove ai pascoli si custodisce il latte, il siero, si fa il burro, il formaggio etc.

[2] Una punta rocciosa che domina il paese

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