21 marzo. Il sole entra in Ariete, inizia la primavera. 21 marzo, festa di san Benedetto abate, e “a san Benedetto, la rondine è sul tetto”.
Ma la stagione delle delizie, meteorologicamente parlando, inizia ben prima di quel periodo, inizia quando i calendari ci situano ancora nel cuore del rigido inverno. La tradizione cristiana poneva a gennaio – prima, almeno che il calendario liturgico venisse rivoluzionato - le feste di alcuni tra i più importanti dei suoi santi. San Giuliano, il giorno 10, san Mauro abate e sant’Antonio abate, rispettivamente il 15 e il 17, san Gaudenzio, il 22, san Giulio il 31. E’ il periodo del maggior freddo e delle grandi nevicate, tanto che la nostra gente aveva definito questi santi mërcänt ëd fiòcä, commercianti di neve.
Ma il 21 è sant’Agnese, e për sänt’Ägnésä, lä lisèrtä l’è ‘n su lä scésä, a sant’Agnese la lucertola compare sulla siepe. Chiaro richiamo a quei brevi pomeriggi in cui il sole, nonostante tutto, riesce già a far sentire il calore.
E sempre a fine gennaio si situano ij tri dì ‘d lä mèrlä, i tre giorni della merla ricordati dalla famosa leggenda e occasione di riti scaramantici – magici, forse, in origine – per celebrare i quali torme di giovani si aggirano nottetempo per le vie del paese gridando: “Ä l’è mòrtä… L’è mòrtä… Fòo sgiänèr, dént fëurèr, vivä lä mèrlä!” (è morta… è morta… fuori gennaio, dentro febbraio, viva la merla).
Il 2 febbraio, poi è l’esplosione della luce. L’antica festa di Candelora si sovrappone a tradizioni precristiane che celebrano il ritorno della luce e della speranza di migliori condizioni di vita. Secondo una leggenda celtica, Bride, la fata della luce, era stata imprigionata in una grotta di ghiaccio dalla strega dell’inverno e il mondo era piombato nel buio e nel freddo dell’inverno. Ma all’inizio di febbraio Bride riesce a liberarsi e torna sulla terra a portare i suoi doni, luce e calore, scacciando la strega malefica. Con il passare dei secoli la fata della luce ha cambiato identità, da membro del ‘piccolo popolo’ si è trasformata in Briget, santa Brigida, non a caso patrona d’Irlanda, la cui festa cade… il 2 di febbraio.
E viene marzo, celebrato ad Agrano, frazione di Omegna con il Cantamarzo, chiaro richiamo ad arcaici riti di fecondità. Due gruppi di persone salgono sulle alture che circondano il paese dai due lati opposti e, aiutandosi con le pidrie, grossi imbuti per il travaso del vino, a mo’ di megafono, combinano scherzosi e improbabili matrimoni “virtuali” introdotti dal richiamo: “Entra marzo in questa terra, per sposar la figlia bella…”
La stagione avanza, passa il carnevale e il popolo cristiano entra in Quaresima, tempo di silenzio e penitenza. Ma proprio in quei giorni la natura esplode in un turbinio di colori e di profumi. E’ il ciclo magico della vita che riprende e si rinnova; non per nulla, proprio al culmine di tale periodo il Cristo risorge dal regno dei morti riaffermando il supremo valore della vita. La vita che finisce e che si rinnova continuamente, secondo un ciclo curvo su se stesso che ben è rappresentato dall’uovo, simbolo della vita stessa, simbolo della Pasqua, simbolo cristiano e pagano che ancora viene invocato. Cantè ij euv è il rito antichissimo che ancora si celebra tra le campagne del basso Piemonte; una questua popolare condotta, nelle notti di marzo, da gruppi di uomini che passano di cascina in cascina a cantare serenate ben auguranti e a pretendere in cambio le uova appena deposte, perché il rito propiziatorio non potrà avere effetto se i cantori, veri e propri celebranti, non saranno debitamente pagati.
E la questua si ripete all’inizio di maggio, ancora una volta a ricordo di un’antichissima festa, quella di Beltain, la divinità celtica della vita e della fecondità. Nei paesi del basso Cusio, un tempo i coscritti rubavano nottetempo un albero, una betulla, in genere, e lo andavano a piantare nella piazza principale; il giorno successivo, primo di maggio, le ragazze lo adornavano di frutti e nastri colorati, danzandovi poi attorno. Quindi la bolä (betulla) era venduta all’asta e con il ricavato si imbandiva un banchetto per i giovani.
A Casale Corte Cerro invece, unico esempio rimasto nel Verbano Cusio Ossola, persiste il ‘maggio serenata’, cäntàa masc, ancora un rito di questua. E sulle sue funzioni magiche e scaramantiche la dicono lunga i testi di una delle strofe: “Särà mai ‘nä bèlä està, finchè masc särà cäntà” (non si avrà una buona estate se non verrà cantato il maggio) e del ritornello, ripetuto ossessivamente: “Oh bèlo vengo Masc!” (venga il bel maggio).
I cantori chiedono in pagamento uova, salamini e vino, e guai! a chi non si affaccia a riceverne l’omaggio; fioccano maledizioni terribili, quali: “Tänti piòd in su col tëcc, gnéssän giù sui vòsti orëcc” (tutte le piode del tetto vi caschino in testa) o: “Tänti scai int ä col mur, tänti bròcch int ël veust cul” (tanti sassi compongono quel muro, altrettanti chiodi vi si piantino in…)
Con l’arrivo di maggio, un tempo i paesi si spopolavano. Gli uomini validi si erano avviati per le strade della pianura o del nord Europa, ad esercitare i tradizionali mestieri dell’emigrazione stagionale – palai, peltrai, ombrellai, spazzacamini – che consentivano un sostegno alle povere economie familiari. Gli altri salivano all’alpeggio, da dove sarebbero ritornati solo a fine estate. Estate che cominciava con la festa di san Giovanni Battista, il 24 giugno; quel giorno si benedicevano i bambini e, la sera, si accendevano i falò, per tenere lontane le creature malvagie che in corrispondenza del solstizio si scatenavano sulla terra.
Ma la stagione delle delizie, meteorologicamente parlando, inizia ben prima di quel periodo, inizia quando i calendari ci situano ancora nel cuore del rigido inverno. La tradizione cristiana poneva a gennaio – prima, almeno che il calendario liturgico venisse rivoluzionato - le feste di alcuni tra i più importanti dei suoi santi. San Giuliano, il giorno 10, san Mauro abate e sant’Antonio abate, rispettivamente il 15 e il 17, san Gaudenzio, il 22, san Giulio il 31. E’ il periodo del maggior freddo e delle grandi nevicate, tanto che la nostra gente aveva definito questi santi mërcänt ëd fiòcä, commercianti di neve.
Ma il 21 è sant’Agnese, e për sänt’Ägnésä, lä lisèrtä l’è ‘n su lä scésä, a sant’Agnese la lucertola compare sulla siepe. Chiaro richiamo a quei brevi pomeriggi in cui il sole, nonostante tutto, riesce già a far sentire il calore.
E sempre a fine gennaio si situano ij tri dì ‘d lä mèrlä, i tre giorni della merla ricordati dalla famosa leggenda e occasione di riti scaramantici – magici, forse, in origine – per celebrare i quali torme di giovani si aggirano nottetempo per le vie del paese gridando: “Ä l’è mòrtä… L’è mòrtä… Fòo sgiänèr, dént fëurèr, vivä lä mèrlä!” (è morta… è morta… fuori gennaio, dentro febbraio, viva la merla).
Il 2 febbraio, poi è l’esplosione della luce. L’antica festa di Candelora si sovrappone a tradizioni precristiane che celebrano il ritorno della luce e della speranza di migliori condizioni di vita. Secondo una leggenda celtica, Bride, la fata della luce, era stata imprigionata in una grotta di ghiaccio dalla strega dell’inverno e il mondo era piombato nel buio e nel freddo dell’inverno. Ma all’inizio di febbraio Bride riesce a liberarsi e torna sulla terra a portare i suoi doni, luce e calore, scacciando la strega malefica. Con il passare dei secoli la fata della luce ha cambiato identità, da membro del ‘piccolo popolo’ si è trasformata in Briget, santa Brigida, non a caso patrona d’Irlanda, la cui festa cade… il 2 di febbraio.
E viene marzo, celebrato ad Agrano, frazione di Omegna con il Cantamarzo, chiaro richiamo ad arcaici riti di fecondità. Due gruppi di persone salgono sulle alture che circondano il paese dai due lati opposti e, aiutandosi con le pidrie, grossi imbuti per il travaso del vino, a mo’ di megafono, combinano scherzosi e improbabili matrimoni “virtuali” introdotti dal richiamo: “Entra marzo in questa terra, per sposar la figlia bella…”
La stagione avanza, passa il carnevale e il popolo cristiano entra in Quaresima, tempo di silenzio e penitenza. Ma proprio in quei giorni la natura esplode in un turbinio di colori e di profumi. E’ il ciclo magico della vita che riprende e si rinnova; non per nulla, proprio al culmine di tale periodo il Cristo risorge dal regno dei morti riaffermando il supremo valore della vita. La vita che finisce e che si rinnova continuamente, secondo un ciclo curvo su se stesso che ben è rappresentato dall’uovo, simbolo della vita stessa, simbolo della Pasqua, simbolo cristiano e pagano che ancora viene invocato. Cantè ij euv è il rito antichissimo che ancora si celebra tra le campagne del basso Piemonte; una questua popolare condotta, nelle notti di marzo, da gruppi di uomini che passano di cascina in cascina a cantare serenate ben auguranti e a pretendere in cambio le uova appena deposte, perché il rito propiziatorio non potrà avere effetto se i cantori, veri e propri celebranti, non saranno debitamente pagati.
E la questua si ripete all’inizio di maggio, ancora una volta a ricordo di un’antichissima festa, quella di Beltain, la divinità celtica della vita e della fecondità. Nei paesi del basso Cusio, un tempo i coscritti rubavano nottetempo un albero, una betulla, in genere, e lo andavano a piantare nella piazza principale; il giorno successivo, primo di maggio, le ragazze lo adornavano di frutti e nastri colorati, danzandovi poi attorno. Quindi la bolä (betulla) era venduta all’asta e con il ricavato si imbandiva un banchetto per i giovani.
A Casale Corte Cerro invece, unico esempio rimasto nel Verbano Cusio Ossola, persiste il ‘maggio serenata’, cäntàa masc, ancora un rito di questua. E sulle sue funzioni magiche e scaramantiche la dicono lunga i testi di una delle strofe: “Särà mai ‘nä bèlä està, finchè masc särà cäntà” (non si avrà una buona estate se non verrà cantato il maggio) e del ritornello, ripetuto ossessivamente: “Oh bèlo vengo Masc!” (venga il bel maggio).
I cantori chiedono in pagamento uova, salamini e vino, e guai! a chi non si affaccia a riceverne l’omaggio; fioccano maledizioni terribili, quali: “Tänti piòd in su col tëcc, gnéssän giù sui vòsti orëcc” (tutte le piode del tetto vi caschino in testa) o: “Tänti scai int ä col mur, tänti bròcch int ël veust cul” (tanti sassi compongono quel muro, altrettanti chiodi vi si piantino in…)
Con l’arrivo di maggio, un tempo i paesi si spopolavano. Gli uomini validi si erano avviati per le strade della pianura o del nord Europa, ad esercitare i tradizionali mestieri dell’emigrazione stagionale – palai, peltrai, ombrellai, spazzacamini – che consentivano un sostegno alle povere economie familiari. Gli altri salivano all’alpeggio, da dove sarebbero ritornati solo a fine estate. Estate che cominciava con la festa di san Giovanni Battista, il 24 giugno; quel giorno si benedicevano i bambini e, la sera, si accendevano i falò, per tenere lontane le creature malvagie che in corrispondenza del solstizio si scatenavano sulla terra.
da Monti e Laghi News - 2006
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